Nel giugno 1768 uno dei più importanti e noti intellettuali europei viene assassinato in un albergo triestino: è Johann Joachim Winckelmann, archeologo, appassionato di antichità, teorico del Neoclassicismo. Il suo assassino viene subito rintracciato e arrestato. Ancor prima che il processo si concluda si diffondono teorie e sospetti sul movente: omosessualità? Diplomazia segreta? La verità, stando all’inchiesta, è però più semplice. Drammaticamente banale…
di Lara Sambucci da Storia in Rete n. 157
Il mistero inizia nel più classico dei modi: un cadavere, molto sangue, molte ferite in una stanza d’albergo. La vittima, si scoprirà ben presto non è uno qualunque: è il grande archeologo Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Non ha ancora compiuto 51 anni quando la morte arriva: siamo all’8 giugno 1768, a Trieste, nella stanza numero dieci dell’Osteria Grande, in piazza San Pietro, verso le quattro del pomeriggio. Sette le ferite presenti sul suo corpo. I medici che eseguono l’autopsia – Domenico Gobbi, Antonio Civrani e il chirurgo Antonio Albrizi – concludono che di queste sette ferite, due sono state quelle mortali e sono quelle inferte direttamente al cuore. Ma Winckelmann non è morto subito: è stato colpito dalla lama di un coltello ben affilato alle nove di mattina, poi sono seguite ore di sofferenze atroci durante le quali riesce a dettare il suo testamento e a ricevere l’estrema unzione da un frate cappuccino accorso al suo capezzale e che resta con lui fino all’ultimo respiro. Pochi istanti prima di spegnersi Winckelmann rivela, a fatica, un dettaglio importante: «M’ha assassinato quello che abitava vicino alla mia stanza». Il cavalier Gaetano Vannucci, presente alla dichiarazione del moribondo, ordina al bargello di far inseguire e arrestare l’assassino di cui si conosce il nome: Francesco Arcangeli, 31 anni, originario della Toscana, di professione cuoco.
Il ruolo che Arcangeli (1737-1768) ha avuto ne «l’affare, il caso, il fatto delle coltellate», come, durante il processo, definirà lui stesso Arcangeli, l’assassinio di cui si era reso colpevole, è più chiaro se si approfondisce la sua psicologia, il suo passato e le traversie che lo avevano portato a Trieste. Le notizie sul suo conto giungono dalla sua viva voce: durante gli interrogatori processuali Francesco Arcangeli parla di sé, della sua storia, accenna alle sue origini e alla sua infanzia, trascorsa a Campiglio di Cireglio, una frazione di Pistoia. Qui suo padre possedeva delle terre, si dedicava all’agricoltura per mantenere moglie e cinque figli. All’età di sedici anni Francesco lascia la famiglia, la casa e l’agricoltura per cercare fortuna a Firenze. Per cinque anni fa lo sguattero a Palazzo Pitti, al servizio del conte Bardi, fu è cuoco presso il signor Baldinotti, il quale gli dà in seguito l’incarico di accompagnare suo figlio Giovanni a Vienna; rimane con lui per cinque settimane, ma quando Giovanni Baldinotti entra nell’esercito austriaco col grado di tenente, Arcangeli perde l’impiego. Suo nuovo padrone diventa subito dopo il conte Cataldi per il quale lavora come cuoco nelle cucine del suo palazzo per quasi due anni, fino a quando commette il suo primo crimine: dopo aver derubato il conte, lascia il servizio fuggendo verso l’attuale Bratislava, che all’epoca si chiamava Presburgo. Qui, con il denaro sottratto al suo padrone, Arcangeli si procura un elegante vestito da gentiluomo e si mette sulla strada per Vienna, cercando di celare la sua indole criminale dietro la raffinatezza del suo abito, la gentilezza dei modi, la mitezza dello sguardo. Ma a Lubiana viene riconosciuto, fermato e arrestato, e infine condotto a Vienna per essere sottoposto a processo. Il tribunale lo condanna a quattro anni di reclusione nel carcere della città, e infine lo bandisce da tutti gli Stati Imperiali. Ma ecco che un fatto fortunato gli fa guadagnare la libertà con un anno di anticipo: in occasione del matrimonio di un principe Asburgo, infatti viene annullata parte della pena di molti condannati; Francesco Arcangeli uscì dalla Casa di Forza il 14 maggio 1767. Nei primi giorni della sua ritrovata libertà frequentò una donna di malaffare con la quale si stabilì a Venezia, fingendo di essere sposati. Presto, stanco della vita di stenti che qui conduceva, lascia la pretesa moglie e la nuova casa per andare a Trieste e cercare un nuovo impiego in città.
Fu così che Arcangeli si stabilì nella locanda migliore di Trieste, l’Osteria Grande in Piazza San Pietro: è il 1° giugno 1768. Il pomeriggio di quello stesso giorno giunge di fronte all’albergo una diligenza postale proveniente da Vienna sulla quale viaggia Johann Joachim Winckelmann. Il cameriere dell’albergo, Andrea Harthaber, porta i suoi bagagli nella camera numero dieci. L’erudito tedesco, già famoso in tutta Europa per i suoi studi sull’arte classica e i suoi scavi archeologici, si registra presso l’albergatore sotto il nome di «Signor Giovanni». Sembra, dunque, che desideri garantirsi qualche giorno di tranquillità, dopo l’estenuante partecipazione ai ricevimenti organizzati in suo onore alla Corte di Vienna. Winckelmann era stanco, ansioso di ritornare ai suoi impegni, alla sua vita di sempre a Roma da cui mancava ormai da due mesi.
Nel suo lungo tour tra Germania e Austria, Winckelmann, in compagnia dello scultore romano Bartolomeo Cavaceppi, aveva cercato finanziamenti che gli permettessero di recarsi in Grecia e studiare ed esaminare in loco la perfezione delle opere d’arte degli antichi greci. Il lungo soggiorno in Italia aveva affinato i suoi gusti e i suoi modi, tanto che i prussiani e la loro mancanza di raffinatezza, questo il difetto che attribuiva al suo popolo (lui era originario della Sassonia), gli erano divenuti intollerabili. Cavaceppi offre una minuta narrazione di questo loro viaggio, delle ultime settimane di vita di Winckelmann, nell’introduzione al secondo volume della sua «Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite e altre sculture antiche», del 1769. Lo scultore romano testimonia l’insofferenza di Winckelmann già dopo aver valicato le Alpi: «Guardate amico, che orrori! Che smisurata altezza di monti!». Tali sentimenti di repulsione crebbero una volta giunti in Germania: «O che sciocca foggia di fabbricare! Osservate i tetti come sono acuti! Torniamo a Roma!». L’umore di Winckelmann divenne cupo, malinconico e inquieto, non poteva proseguire oltre. Decise così di interrompere improvvisamente il suo viaggio e di ritornare in Italia; scrisse una lettera al suo protettore e caro amico, il cardinale Alessandro Albani, per avvisarlo che presto avrebbe fatto ritorno e avrebbe ripreso i suoi incarichi di Prefetto delle Antichità di Roma. Prima di mettersi sulla strada del ritorno, volle passare per Vienna. Il 12 maggio arrivò presso la corte imperiale, fu ricevuto con grandi onori da Maria Teresa d’Asburgo. Il cancelliere Kaunitz e l’imperatrice d’Austria lo omaggiarono con delle monete assai preziose, due medaglie in oro e due in argento, e lo invitarono a trattenersi in città. Ma era per lui necessario rientrare al più presto a Roma per lasciarsi dietro le spalle quelle terre per lui così infeconde e con esse le sue umili origini, quella vita che non gli era mai appartenuta. Finalmente il 28 maggio partì da Vienna, abbandonando l’amico Cavaceppi, il quale decise di proseguire da solo il suo viaggio per quei paesi stranieri di cui non conosceva la lingua e i costumi. Il 1° giugno arrivò a Trieste, tremante, ammutolito e confuso, con il solo desiderio di tornare a Roma.
A Trieste Winckelmann attendeva che un’imbarcazione lo portasse al più presto ad Ancona, per fare da lì ritorno nella Città Eterna. Ma dovette aspettare a lungo, più di quanto sperava. In questi giorni di attesa s’intrattenne con un giovane dagli occhi placidi e dalle maniere cortesi, un cuoco toscano che aveva preso alloggio nella stanza adiacente alla sua. Francesco Arcangeli non era certo un fine conversatore, ma si dimostrò da subito disponibile ad aiutare Winckelmann a trovare una nave che lo riconducesse a casa. Fin dal primo giorno del loro incontro si offrì di guidarlo per le affollate strade triestine fino al porto del Mandracchio per accordarsi con il padrone di una barca in partenza per Ancona di lì a qualche giorno. Grato ad Arcangeli per la sua disponibilità, conquistato dal suo aspetto di uomo buono e gentile e dalla sua inclinazione all’ascolto, gli concesse la sua amicizia e passò la maggior parte del suo tempo in sua compagnia presso il caffè di Gaspare Griot, o cenando insieme nella sala da pranzo dell’albergo. A volte consumavano il pasto da soli, nella camera dell’uno o dell’altro, ed era in queste occasioni che Winckelmann raccontava della sua vita, dei suoi prestigiosi incarichi e delle tappe del viaggio che aveva appena concluso, finché durante una delle loro lunghe passeggiate, non accennò a quelle medaglie d’oro e d’argento che aveva ricevuto a Vienna dal principe Kaunitz e dall’imperatrice Maria Teresa. Questa confidenza gli fu fatale. L’Arcangeli non chiese subito di mostrargliele, ma già nella sua mente premeditava un piano per entrarne in possesso. Il giorno successivo, durante la passeggiata mattutina, i due parlarono ancora e a lungo delle medaglie che Winckelmann aveva ricevuto in dono a Vienna e, rientrati in albergo, lo studioso decise di mostrare al nuovo amico i suoi tesori, custoditi in una scatola nascosta in uno dei suoi bagagli, senza rendersi conto di quanto il giovane fosse interessato.
La mattina seguente Arcangeli non incontrò Winckelmann per colazione come ogni giorno ma si recò di tutta fretta al negozio Pfneise per acquistare un coltello da taglio e un’elegante custodia; più tardi, al negozio di Marianna Derin, si procurò anche della corda. Rientrato in albergo, raggiunse la sua camera: con la corda preparò un cappio e la nascose assieme al coltello sotto i vestiti appoggiati su di una sedia. Quella sera, come tutte le sere, Winckelmann e Arcangeli cenarono insieme, conversarono, e infine si salutarono, dandosi appuntamento all’indomani. Come attestano gli atti del processo, la mattina dell’8 giugno, Winckelmann era seduto alla piccola scrivania della sua stanza, intento a scrivere alcuni appunti e ricevette, come stabilito, la visita di Arcangeli. Conversarono a lungo dell’imminente ritorno a Roma, della partenza della barca dal porto del Mandracchio e dei preparativi per il viaggio, mentre la cameriera, Eva Tusch, sistemava la stanza. L’uscita della cameriera dalla camera diede ad Arcangeli il coraggio di portare avanti il disegno cui aveva pensato per tutta la notte, ma non aveva con sé né corda, né coltello; essi attendevano immobili lì dove li aveva lasciati la sera prima. Con la scusa di aver dimenticato il fazzoletto, andò nella camera accanto, afferrò le armi e le nascose sotto la giacca. Tornato dall’amico, il giovane pistoiese gli chiese, con tono tranquillo e per nulla minaccioso, di mostrare più tardi a lui e agli altri commensali nella sala da pranzo le preziose medaglie della corte austriaca. Winckelmann, secondo quanto afferma l’Arcangeli stesso nella sua deposizione, scosse la testa e rifiutò con decisione: «se l’oste vede che sono danaroso mi metterà un fiorino in più nella spesa!». Arcangeli, che aveva l’unico intento di sottrargli quei ricchi tesori, tentò allora di soffocarlo con la corda, maneggiandola con mano tremante e incerta, così che Winckelmann, reagendo con forza, riuscì a respingerlo. Il ladro trasse fuori il coltello e dopo una violenta colluttazione lo colpì a morte nel torace e nel ventre. Un cameriere della locanda, allarmato dalla veemenza delle grida, entrò nella stanza; Arcangeli, spaventato, si diede alla fuga e scappò via dall’albergo, stravolto dalla brutalità delle sue stesse azioni, senza effetti personali e con la camicia insanguinata. Le medaglie, che dovevano essere il frutto del suo delitto, rimasero là, custodite in una scatola, nei bagagli ancora sfatti di Winckelmann.
Arcangeli riuscì ad attraversare la città fino a giungere al confine veneto, raggiunse l’Istria, ma sulla strada per Lubiana fu fermato dai soldati e interrogato. Subito confessò il suo reato. Il 15 giugno fu riportato a Trieste, affrontò interrogatori sempre più stringenti che lo portarono a raccontare lo svolgimento dei fatti. Si dichiarò colpevole. E pentito. Il processo si svolse in quindici giorni, nell’«Ufficio Criminali» presso la Cancelleria Pretoriale in Piazza San Pietro, durante il quale furono prodotti centocinquanta fogli di verbale che includono tredici documenti in allegato, tra i quali la riproduzione grafica del coltello. Il 18 luglio 1768 Francesco Arcangeli fu condannato a morte per arrotamento dal disopra all’ingiù davanti alla stessa Locanda Grande, dove aveva ucciso Winckelmann. La pena cui era stato destinato era tra le più terribili poiché prevedeva che il corpo del criminale fosse straziato, la sua carne dilaniata, le sue ossa fratturate [solo due anni dopo, nel 1770, l’Imperatrice promulgò la «Constitutio Criminalis Theresiana», che decretava l’abolizione della tortura NdR]. Due giorni dopo la sentenza, su una tribuna eretta per l’occasione in piazza San Pietro, davanti alla folla accorsa per assistere all’esecuzione dell’assassino, fu eseguita la sentenza pronunciata dal giudice civile e criminale. La morte sopraggiunse alle ore 10 e il suo corpo venne sepolto nella cappella presso la Porta Cavana.
Come tutti i fatti di cronaca relativi a personaggi illustri, anche l’assassinio di Winckelmann provocò chiacchiere e dicerie. I primi pettegolezzi a serpeggiare in città riguardavano un possibile legame di natura omosessuale tra la vittima e il carnefice, congettura che tuttavia non emerge dalle carte processuali. Si parlò inoltre del curioso comportamento del cancelliere imperiale von Kaunitz. Morto Winckelmann, subito dopo la cerimonia funebre tenutasi il 10 giugno presso la cattedrale di San Giusto, egli aveva espresso il desiderio di ricevere continui aggiornamenti sull’andamento del processo e chiesto inoltre di poter controllare tutti gli effetti personali del defunto prima che fossero spediti al solo erede designato dall’archeologo, il cardinale Albani. Queste singolari richieste fecero sorgere il sospetto che tra gli averi di Winckelmann potessero esserci dei documenti compromettenti e pericolosi. Germogliò così l’ipotesi di un misterioso intrigo internazionale, si pensava che l’archeologo fosse coinvolto in qualche operazione diplomatica segreta.
Ma non sempre dietro la morte di un uomo grande, come grande è stato Winckelmann, figura di rilievo internazionale, dalla cultura senza pari, fondatore della moderna archeologia e teorico del Neoclassicismo, si celano motivazioni rilevanti, questioni affascinanti o intriganti. Winckelmann fu molto probabilmente semplicemente vittima di una banale vicenda criminale. Morì come un uomo qualunque, per mano di un ladro che si fece assassino attratto dalla ricchezza dei suoi averi. E come un uomo qualunque, i suoi resti furono seppelliti insieme a quelli di tanti altri in un ossario comune della Cattedrale di San Giusto, lì dove giacciono ancora.