Antifascista negli anni d’oro del Regime, aderì alla Rsi. Finirà in carcere, come racconta in “15 mesi al fresco”
di Stenio Solinas da Il Giornale del 25 giugno 2022
Fresco della nomina di direttore editoriale della Unitas, che ha la sua sede a Milano, in Galleria, il giovane Valentino Bompiani vede passeggiare davanti al Savini Guido da Verona, ghette, colletto inamidato «che lo impicca, due levrieri al guinzaglio. È il d’Annunzio locale, senza messaggi, ma anche lui con l’odore di cavalli e di peccato». Un po’ tutta l’Italia letteraria degli anni Trenta, pensa Bompiani, gli somiglia: «Nelle vetrine delle librerie, donne nude dalle coscie falcate, vergini languenti che hanno bianche le mani ed i seni rivolti all’insù – come i fiori degli ippocastani si torcono sulle copertine dei libri. I dominatori delle vendite si chiamano Pitigrilli, Amelia Guglielminetti, Lucio d’Ambra, Arnaldo Fraccaroli, Marco Ramperti».
Ramperti scrive allora sull’Ambrosiano, di cinema, di teatro, di letteratura. Antonio Gramsci lo cita a proposito di un’elegante stroncatura dell’ermetismo di Ungaretti, a cui contrappone l’astiosa e fascistissima replica dell’autore di Il porto sepolto
Qualche anno prima Camillo Pellizzi, che è l’ambasciatore in pectore della cultura italiana oltremanica, lo ha definito «geniale e brillante ed arguto scrittore», «spirito folletto», «uno dei giornalisti più interessanti del tempo nostro». Qualche anno dopo, Ramperti stesso pubblicherà per Rizzoli L’alfabeto delle stelle. Nel farlo rieditare, a distanza di mezzo secolo, da Sellerio, Leonardo Sciascia lo considererà «prova di una estravagante genialità, tra d’Annunzio e Ramon Gomez de la Serna».Nato nel 1886, Ramperti appartiene alla generazione dei «vociani», dalla rivista La voce di Giuseppe Prezzolini, quella che Curzio Malaparte definirà «la serra calda del fascismo e dell’antifascismo». Ne fanno parte Giovanni Amendola, Benito Mussolini, Gaetano Salvemini, Augusto Monti, Scipio Slataper, ne saranno lettori attenti Gobetti e Gramsci, a testimonianza della acutezza del giudizio malapartiano. Socialista, anti-interventista, Ramperti ha iniziato la sua carriera all’Avanti, ha polemizzato con il Mussolini del Popolo d’Italia, si è divertito a organizzarne il «funerale politico» all’indomani delle elezioni del 1919 in cui il neonato Partito fascista non ha portato a casa neppure un deputato. Un feretro, con il futuro Duce come fantoccio, è stato accompagnato lungo i Navigli e poi buttato nel fiume. Alle elezioni del 1924, quelle che vedranno il trionfo del Fascismo, Ramperti verrà preso a pugni e a calci dalle «camicie nere»; nel 1930 risulterà ancora schedato come «sovversivo», non gli verranno mai permesse tessere e distintivi.
Negli anni Trenta da cui siamo partiti, Ramperti ha dunque ormai superato i quarant’anni, ha scritto un paio di romanzi e racconti di discreto successo, ma di scarso valore, ha però cominciato a ritagliarsi il ruolo che è solo suo, quello appunto di polemista di costume e di costumi, di critico stravagante di teatro e soprattutto di cinema, attento al divismo, del tutto estraneo all’idea, coniata dal fascismo stesso, dell’«arma più potente», l’industria cinematografica appunto come arma di distrazione di massa e insieme come arma di propaganda di massa. Parla soprattutto di «dive e di divine», Ramperti, ha fra le tante collaborazioni per quotidiani, settimanali, mensili, una rubrica di lettere sul tema, è una firma conosciuta. Il Regime, insomma gli permette di vivere e in cambio Ramperti si tiene per sé il suo antifascismo socialista umorale, più che ideologico, beffardo più che dottrinario. Ha già abbastanza nemici di suo, per permettersi il lusso di farsene altri nel nome dell’ortodossia. Nel 1939, quando di anni ne ha ormai 53, sposa la ventottenne Michelangela Borsotti, detta «Mimi», e insomma la sua lunga e accidentata navigazione dentro il fascismo sembra approdata in un porto sicuro. Nel rievocarla da un punto di vista squisitamente letterario, Ramperti scriverà ironicamente: «A vent’anni, al tempo dei primi sonetti e del diavolo in corpo, dicevano che imitassi Baudelaire; a trenta, non appena cominciai a scegliere gli aggettivi e a precisare le immagini, dissero che imitavo d’Annunzio; a quaranta, quando la vocazione romantica cominciò a manifestarsi con grave scandalo dei maghi e degli ermetici, che imitavo i maestri della scapigliatura: accusa di scapigliato, che non cessò neppure quando divenni calvo». Nelle foto d’epoca appare spesso con una cravatta alla Lavallière, lo sguardo fiero, un doppiopetto ben tagliato. Una foto a braccetto con Jean Harlow lo rivela però con lo sguardo perso nel vuoto mentre lei lo fissa e gli sorride.
La Seconda guerra mondiale fu per Ramperti l’inizio della fine. Dalla sconfitta del fascismo avrebbe avuto tutto da guadagnare, ma il 25 luglio prima, l’otto settembre poi lo riempirono di furore. Aderì alla Repubblica sociale, andò a Venezia, dove era stata intanto trasferita Cinecittà, scrisse contro i voltagabbana, gli scrittori come gli attori e i registi, gli angloamericani, i Savoia, gli ebrei Anno dopo, nel cercare di spiegare il perché di questa scelta «suicida», Indro Montanelli vide in essa «una componente donchisciottesca e cavallottiana, la civetteria, fra sportiva e letteraria, del bel gesto».
All’indomani del 25 aprile 1945, con l’VIII armata inglese in piazza San Marco, Ramperti si consegnò alla polizia, fu messo in prigione, poi mandato a processo. All’accusa di essere stato al soldo dei tedeschi replicò che nella sua vita aveva avuto «un solo marco, quello del mio nome». A quella di aver collaborato con il nemico invasore fece osservare «di non aver mai scritto a favore degli inglesi». Venne condannato a 16 anni di carcere, restò in cella un anno e tre mesi, l’amnistia voluta da Togliatti lo rimise in libertà nel luglio del 1946, giornalisticamente un uomo finito. La Repubblica democratica nata dalla Resistenza fu nei suoi confronti di «fascista» più feroce di quanto non lo era stato il fascismo nei suoi confronti di «antifascista».
Bene ha fatto Oaks a ristampare “15 mesi al fresco” (366 pagine, 24 euro), ovvero «i ricordi del tempo più maledetto e più meritorio della mia vita» con un’esauriente introduzione di Maurizio Pasquero. È un libro che dà un’idea dello stile Ramperti, colto, ironico, a volte svagato, ma qui senza polemiche, apologie, regolamenti di conti. Uscì nel 1960, un pugno di anni prima della sua morte, ma ancora nel 1950, con Benito I imperatore, Ramperti aveva fatto a tempo a scrivere il primo romanzo ucronico italiano, con un Mussolini vittorioso in guerra e che però voltava le spalle all’impero e se ne andava sulla via Appia con il suo violino e insieme a un gruppo di musicisti vagabondi. Sulla strada un ritardatario, ansioso di non perdere le celebrazioni del trionfo militare e civile, gli chiedeva la strada per la capitale. Il libro si chiudeva con i due che si salutavano: «Piacere, Audisio, ragionier Walter». «Piacere, Mussolini, cavalier Benito».
Fra i giornali che nel dopoguerra fecero scrivere Ramperti, spiccano il Corriere lombardo, di Benso Fini, il papà di Massimo Fini, che ancora conserva «un interessante oltre che divertente carteggio fra i due»; Il Roma Francobaldo Chiocci, uno degli inviati di punta del Tempo, il quotidiano di fondato da Renato Angiolillo, sarà invece scelto dallo stesso Ramperti come erede dei suoi libri e dei suoi scritti. Fra le molte carte, Chiocci conserva nel suo archivio il manoscritto inedito dell’ultimo libro di Ramperti, L’arca del diluvio, un apologo in cui il mondo vegetale e animale fa la morale agli umani, con una prefazione di Jean Rostand, biologo nonché accademico di Francia. Lo dico per chi fosse interessato ad andare più a fondo sulla vita e sull’opera di Ramperti.
Ramperti e Chiocci si erano conosciuti in occasione del ritorno in Italia di Ezra Pound, un altro che per bizzarria e donchisciottismo aveva con il nostro molti punti in comune, oltre al manifestargli una notevole stima: «Uno dei pochi scrittori italiani esportabili» lo aveva definito. Nell’ospitare a casa sua il poeta, reduce da un incontro al Ridotto dell’Eliseo dove tutti lo avevano applaudito per il suo essere finalmente uscito dal manicomio, facendo però finta che il fascismo di Pound fosse dovuto appunto alla pazzia, Ramperti si era limitato a chiosare: «Matto chiama matto». Al di là dell’essere accomunati dall’«avventura politica», erano del resto diversissimi. Ramperti al fondo era un calligrafico. Nonché un amante della chiarezza.