di Morello Pecchioli per “la Verità” del 21 ottobre 2021
Meno 10. Mancano dieci giorni al 23° World pasta day, la giornata mondiale della pasta istituita nel 1998 dall’International pasta organization (Ipo). La festa si celebra in tutto il mondo ogni 25 ottobre. Dire «pasta» in Italia equivale a pronunciare un nome venerabile, degno del massimo rispetto. Pasta è in stretta relazione con mamma, famiglia, casa, patria.
Ogni tanto ci provano i giornalisti birichini di Der Spiegel a sputtanare l’Italia oltraggiando il nostro cibo più sacro, gli spaghetti. Nel 1977 il settimanale tedesco uscì in copertina con un piatto di vermicelli «condito» con una pistola. Come dire: Italia paese di mafiosi e delinquenti. E nel giugno di tre anni fa, dopo averci definiti «scrocconi», un’altra copertina mostrò una forchetta con uno spaghetto arrotolato che scendeva dai rebbi in forma di cappio, metafora dell’Italia che impicca l’Europa.
Adesso basta signori di Der Spiegel, giù le mani dalla pasta. Offendiamo forse, noi italiani, la vostra kartoffelsalat, l’insalata di patate, accostandola al Dieselgate Volkswagen? O mettendo una mascherina anti Covid (vedi lo scandalo nel marzo di quest’ anno) sopra una coppia di wurstel grigliati? Oltretutto le vostre offese cadono nel vuoto perché ai vostri compatrioti la pasta italiana piace, eccome.
La Germania è tra i maggiori importatori di spaghetti, penne, lasagne e rigatoni tricolori. I tedeschi mangiano volentieri la pasta a Jesolo, sul lago di Garda, a Napoli, ma anche a Bonn, Berlino, Monaco e Amburgo. E non l’apprezzano solo loro. Un rapporto dell’Ipo informa che nel 2019 sono stati prodotti in tutto il mondo quasi 16 milioni di tonnellate di pasta lunga e corta: fettuccine, fusilli, farfalle, sedanini e via pastasciuttando.
Un quarto della produzione italiana è made in Italy. Se poi ci dicono «italiani mangia spaghetti», non offendiamoci. Anzi, andiamone orgogliosi. L’Ipo – dati sempre del 2019 – ci mette sul podio più alto di mangiatori di pasta con 23,1 chilogrammi annui divorati a testa. Seguono la Tunisia con 17, il Venezuela con 12, la Grecia (11), il Cile (9,4), gli Stati Uniti (8,8), Argentina e Turchia (8,7), Francia (8), Germania (7,7), Giappone.
Altro che Napoleone, altro che dal Manzanarre al Reno… Le armate di bucatini, fettuccine, mezze maniche, che si sono mosse dal Bel Paese fin dal Rinascimento conquistando le corti europee, ma che hanno intensificato le operazioni nell’Ottocento e nel Novecento grazie agli emigranti, alle trattorie Bella Italia sparse per il mondo e al turismo d’assaggio, hanno conquistato il mondo.
Ma la pasta è davvero nata in Italia? Una stupida leggenda commerciale inventata nel 1929 dal Macaroni Journal, rivista dell’Associazione americana di produttori di pasta attribuisce ai cinesi l’invenzione di lunghi fili di pasta essicati al sole. Sarebbe stato un marinaio di Marco Polo che aveva l’improbabile cognome di Spaghetti a rubare la ricetta. Il grande viaggiatore veneziano li avrebbe poi diffusi in Italia.
Un’americanata. Rimaneggiata e sceneggiata, fu riproposta nel 1938 nel film Le avventure di Marco Polo con protagonista Gary Cooper. Probabilmente a inventare per caso la prima pasta fu un contadino qualche migliaio di anni fa. Fatto un impasto con acqua e farina di cereali, lo stirò e lo mise a cuocere su una pietra rovente ottenendo un cibo che solo con molta buona volontà può essere definito l’antenato della pasta.
Ben diversa è la storia raccontata dai rilievi che ornano la tomba della famiglia etrusca dei Rasenna a Cerveteri. Il tumulo, che lo scrittore inglese David H. Lawrence chiamò Grotta Bella, è un libro aperto sugli usi degli Etruschi a tavola. In casa Rasenna, raccontano i rilievi, si tirava la sfoglia come fa una rezdora emiliana d’oggidì: pescando la farina da un sacco, usando mestoli per l’acqua, il matterello e la tavola spianatoia, il coltello e perfino la rotella tagliapasta.
Ma già i Greci e, successivamente, i Romani conoscevano il laganum che molti storici definiscono l’antenato della lasagna. Cicerone ne andava ghiotto e Orazio lo esalta nelle Satire: «…inde domum me ad porris et ciceri refero laganique catinum», quindi me ne torno a casa, al mio piatto di porri, di ceci e di lagano. Apicio, il cuoco dei Luculli e dei Trimalcioni imperiali detta nel Re Coquinaria la ricetta di un pasticcio che chiama lagana in cui le strisce di pasta sono alternate a strati di carne e di pesce. Il tutto è, poi, cotto in forno.
Per trovare traccia di spaghetti e maccheroni bisogna aspettare un millennio e l’insediamento degli Arabi in Sicilia. Da uno scritto del viaggiatore e geografo Muhammad al-Idrisi che risale al 1154 (e quindi ben prima di Marco Polo) apprendiamo che a Trabia, l’araba Al Tarbiah, allora piccolo borgo poco distante da Palermo si produceva un «cibo di farina in forma di fili» chiamato itriyah, spaghi.
Adiacente a Trabia c’è Termini Imerese e qui, secondo La storia della cucina italiana a fumetti pubblicata dall’Accademia italiana della cucina, sono nati, sempre grazie agli Arabi, i vermicelli con le sarde, pinoli e uvetta, piatto che dopo mille anni si mangia ancora di gusto a Palermo. A Salento si mangia con altrettanto piacere il tradizionale ciceri e tria, che ancora porta il nome degli antenati itriyah.
Furono i mercanti di Genova che nello stesso XII secolo fecero conoscere gli spaghi arabi nel nord Italia dove, per secoli, furono conosciuti come «trii genovesi». Per centinaia di anni furono mangiati nelle corti e nei palazzi principeschi in bianco, conditi con formaggio, con burro, zucchero e cannella, con formaggio e spezie.
A compiere il miracolo che li tinse di rosso furono un re, Ferdinando IV di Borbone, e un santo, San Marzano, nome della località in cui il re ordinò di piantare i semi di pomodoro ricevuti in regalo dal vicerè del Perù. Ma l’accoppiamento tra pasta e pummarola, che Antonio Latini ne Lo scalco alla moderna (Napoli, 1694) chiama «salsa spagnola», non avvenne automaticamente.
Nella città di San Gennaro il popolino continuò a mangiare fino a ‘800 avanzato i maccheroni, cibo nutriente e a basso costo, in bianco. Soltanto verso la metà di quel secolo le dita che i napoletani- vedi Totò nel film Miseria e nobiltà- usavano come forchetta, s’ imbrattarono di rosso.Il resto è storia contemporanea.
«La vita è una combinazione di pasta e magia», dichiarò Federico Fellini che nel 1985 girò il celebre spot per la Barilla: un’aristocratica signora in un lussuoso ristorante, dopo la recita da parte del maître di un menu tutto in francese, ordina: «Rigatoni». Cos’ è la pasta lo dice Aldo Fabrizi in una dichiarazione d’amore in versi: «È un’opera d’ingegno e fantasia,/ una grazia de Dio che s’ assapora:/ l’unico tranquillante che rincora/ sia er popolino che la borghesia».
In un altro sonetto Fabrizi elenca in romanesco 36 formati di pasta. Tra i più curiosi e strani: schiaffoni, occhi de lupo, lumaconi, pippe, cazzetti d’angelo, fischiotti… Perfino i frati cappuccini sono entrati nello spirito della Giornata mondiale della pasta riproponendo la ricetta della Pasta francescana. «Forse San Francesco non l’ha mai mangiata», scrivono sull’ultimo numero del mensile Frate Indovino, «ma è buona sempre perché la forza della ricetta è quella di non essere un piatto povero.
Si può preparare con i fusilli, con le ruote o con i cannelloni. Si prepara un soffritto di cipolla e salsiccia (o guanciale) in olio extravergine d’oliva, si aggiungono funghi freschi e passata di pomodoro. Nel sugo si salta la pasta al dente e si impiatta con una manciata di parmigiano e un trito di prezzemolo». Pace e bene e buon appetito.