È almeno dalla metà del XIV secolo che il mondo tribola per epidemie che arrivano Asia orientale. Iniziarono i discendenti di Gengis Khan scatenando quella che sarebbe passata alla Storia come la «Peste Nera». Poi altri guai sono arrivati nell’Ottocento e nel Novecento – compresa la famosa «Spagnola» che invece era «cinese»… – fino all’attuale Covid-19. Nato non a caso, come le epidemie del passato, da un malsano rapporto alimentare tra uomini e animali tipico di alcune aree dell’Asia
di Pietro Romano, da Storia in Rete n. 180 (aprile 2021)
Uscito Donald Trump dalla Casa Bianca, a chiamare «China virus» il Covid-19 non c’è più nessuno. Benché, in verità, dalla farsesca missione di inizio anno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Wuhan, in Cina, dove si sono sviluppati i primi casi, non siano arrivati chiarimenti. Non solo, infatti, questa missione non è stata in grado di capire, almeno ufficialmente, se l’epidemia sia scaturita dal laboratorio di virologia sino-europeo della metropoli cinese ma, in ultima analisi, nemmeno se sia partita dalla Cina. «Spesso le origini di questo evento sono quasi impossibili da determinare», ha spiegato l’ex papavero dell’Onu, Piers Millett. Suscitando l’ira di molti specialisti e perfino della nuova amministrazione democratica Usa. Tanto più che tra le ipotesi dell’Oms è rimasta in piedi quella, cara al governo di Pechino, di una trasmissione tramite la catena del freddo, insomma attraverso surgelati importati, presumibilmente da Paesi occidentali.
A differenza di quanto sostiene Millett, però, sembra singolare che, quasi per la prima volta nella storia, una emergenza sanitaria di tale portata a oltre un anno dal suo manifestarsi non abbia un luogo di nascita accertato. Tanto più che anche alle varianti del Covid-19 viene immediatamente affibbiata la denominazione di origine (inglese, brasiliana, sudafricana…). Evidenti, quindi, appaiono le ragioni politiche dietro questa incertezza. Eppure, non c’è nessuna prova contraria, a parte la caparbietà del governo di Pechino (che prova ovviamente non è), al fatto che il virus si sia manifestato dapprima in Cina. E che fin da subito nella città-focolaio, Wuhan, le autorità locali (e quindi nazionali, perché in un Paese retto da una dittatura comunista come la Cina i poteri locali sono comunque limitati) abbiano soffocato la voce dei medici che nella capitale dell’Hubei avevano lanciato l’allarme per primi. Medici, per intendersi, come il povero Li Wenliang perseguitato per aver informato alcuni suoi colleghi della diffusione a Wuhan di un virus sconosciuto che gli ricordava la SARS del 2003, e a sua volta vittima del coronavirus. Di conseguenza, il mondo ha perso tempo prezioso e il governo cinese si è precostituito un alibi. In questa sede, beninteso, non esiste nessuna volontà di incolpare aprioristicamente la Cina. Ma oltre le evidenze anche la Storia depone in questa direzione. Il mondo deve infatti alla Cina due pandemie di peste, quattro pandemie influenzali e due emergenze da coronavirus oltre a numerose riproposizioni di eventi infettivi.
Andiamo in ordine cronologico: correva il 1347 e a scatenare la prima guerra batteriologica della storia e la conseguente «peste nera» che in cinque anni avrebbe decimato la popolazione europea fu Djanibeg, nipote del mongolo Gengis Khan. Per vincere la resistenza dei genovesi assediati a Caffa, città portuale della Crimea, fece catapultare cadaveri pestiferi al di là delle mura. Sulle coste del Mar Nero, infatti, durante l’assedio era approdato il morbo diffusosi in Asia continentale dalla regione dell’Hubei, con capitale Wuhan: la stessa area salita tristemente alle cronache anche all’inizio dell’attuale emergenza sanitaria. Furono poi, molto probabilmente, i marinai genovesi scappati da Caffa e sbarcati a Costantinopoli e a Marsiglia a diffondere i bacilli in Europa.
La seconda pandemia da peste nata in Cina risale a un’epoca molto meno remota. Il suo nome è appunto «peste cinese» e scoppiò nel 1855 nello Yunnan, una regione meridionale dell’allora Celeste Impero. La sua diffusione fu molto lenta e impiegò quasi nove anni per arrivare a Pechino, città già allora super-popolata e dove la convivenza tra uomini e animali di ogni genere, allevati e selvaggi, era abituale. Da lì passò in breve tempo, però, alla colonia britannica di Hong Kong per espandersi al di fuori della Cina da un porto all’altro. Anche in quel caso, come in tante epidemie, il morbo viaggiò da est a ovest, seguendo i ratti e le loro pulci nelle stive delle navi. Una peste molto meno devastante di quella «nera» anche per le mutate condizioni igienico-sanitarie e le più profonde conoscenze mediche maturate nel frattempo. Un’epidemia per così dire, intermittente: infatti, è riapparsa di tanto in tanto sotto forme meno gravi del passato e/o localizzata geograficamente. È rimasta endemica in Madagascar. Fece 106 morti a Parigi negli anni Venti dello scorso secolo, nell’area a nord di Clichy, portata da un malese morto con i caratteristici bubboni sotto le ascelle. E ha provocato molti decessi nel bacino mediterraneo tra le truppe trasportate da una sponda all’altra durante la Seconda guerra mondiale.
Nella lunga storia dei rapporti tra Cina ed epidemie esiste poi un caso più unico che raro, relativo alla cosiddetta «Peste Manciuriana», che scoppiò, si diffuse e si concluse tra il 1910 e il 1911. In che cosa consiste questa differenza? Nell’insolita trasparenza e nella collaborazione internazionale adottate da Pechino e che permisero di circoscrivere l’epidemia e «limitare» a non oltre 60 mila i decessi (perlopiù nel primo anno di epidemia) oltre che a sradicarla. Il merito, però, non fu di Pechino. In quegli anni, susseguenti la Rivolta dei Boxer (secondo la definizione occidentale), la Cina era una sorta di enorme protettorato, in specie le aree prospicienti il mare e le città principali, dei Paesi che avevano partecipato alla spedizione militare in Cina, tra i quali anche l’Italia.
L’epidemia venne trasmessa dalle marmotte agli esseri umani e in breve tempo una variante permise la trasmissione tra persone. Dopo settimane di inazione, i rappresentanti dei governi occidentali obbligarono l’imperatore Pu Yi a incaricare un dottore di etnia cinese ma di formazione britannica (Wu Lien-teh, 1879-1960. Si era laureato a Cambridge) a prendere in mano la situazione con poteri molto ampi. Wu Lien-teh impose misure draconiane, dall’isolamento dei malati alla quarantena di quanti li avevano frequentati, dall’obbligo al personale sanitario di indossare la mascherina alla cremazione dei defunti (anche non direttamente per il morbo) e al divieto di spostamento all’interno e all’esterno del Paese. Wu stabilì anche una sorta di direttorio medico di emergenza e stese una rete con colleghi e presidi medici sparsi per il Paese condividendo con immediatezza le informazioni sensibili. Questa strategia fu condivisa con molti membri della comunità scientifica internazionale e culminò nell’International Plague Prevention Conference, tenuta nell’aprile del 1911, con l’intervento di numerosi epidemiologi internazionali. Il cambio di regime avvenuto nel 1912 e la virata nazionalista in Cina avrebbero in breve tempo, però, annullato i passi in avanti compiuti soprattutto sul fronte della trasparenza e dell’adozione di metodi sperimentati in altri Paesi. Come pochi anni dopo avrebbero dimostrato lo scoppio e la diffusione della cosiddetta «spagnola».
La Cina è uno dei principali «laboratori» mondiali anche di pandemie influenzali, di origine aviaria, il cui virus passa solitamente da uccelli a maiali e poi all’uomo. La «spagnola», che fece circa 50 milioni di vittime tra il 1918 e il 1920, era comparsa inizialmente a Shangai per passare in Russia e arrivare quindi in Europa, tenuta nascosta dalla censura dei Paesi in guerra e venuta alla luce solo grazie ai meno controllati giornali della neutrale Spagna. Da qui il suo appellativo. Alcuni decenni di tregua e nel 1957 dalla provincia cinese sud-orientale del Guizhou si diffuse rapidamente in Asia, Australia e poi Europa l’influenza asiatica che seminò morte e devastazione facendo tre milioni di vittime. Tempo dieci anni e a Kowloon (nel distretto di Hong Kong) vennero individuati casi di un’altra influenza di origine aviaria che fu definita «influenza di Hong Kong» o «asiatica B» e fece un milione di morti. In Italia se ne contarono alcune decine di migliaia tra il 1968 e il 1969 ma l’emergenza sanitaria non divenne anche socio-economica né cambiò i comportamenti dei cittadini. Basta affacciarsi in un archivio di quotidiani e rivedersi le pagine inchiostrate di quel periodo. Un altro decennio circa, ormai alla vigilia degli anni Ottanta del Novecento, ed ecco riapparire il ceppo della «spagnola» sempre in Cina probabilmente frutto della manipolazione del virus nei laboratori dove si studiano i vaccini. Un intervento umano, peraltro, sempre negato da Pechino. Lo sterminio di uccelli a milioni e milioni di esemplari ha evitato il diffondersi, in seguito, di altre forme influenzali acute, ancora nel 2006.
Diverso il caso della sindrome respiratoria Sars individuata nel novembre 2002 nella provincia del Guangdon che nel 2003 fece numerose vittime. Fino a quel momento questo genere di sindrome da coronavirus non aveva provocato problemi agli uomini, solo una sorta di raffreddore acuto. Nella fattispecie, però, l’assalto alle vie respiratorie poteva essere letale. Come si fosse trasformata l’azione del virus, in natura o in laboratorio, non è dato sapere al cento per cento. Maggiori indizi sono scaturiti sull’agente del virus: sarebbe portato da una civetta di cui sono sempre andati ghiotti i cinesi ricchi e potenti, perché rara e costosa. Il miglioramento del tenore di vita ha condotto a una diffusione maggiore di tale cibo e, quindi, a meno controlli anche nelle cucine dov’è possibile che questo uccello carnivoro e aggressivo abbia ferito e infettato qualche addetto.