«Prendete il vostro tempo o voi che entrate» potrebbe essere scritto all’entrata di «Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics, Italia 1918-1943» la gigantesca rassegna che aprirà domenica alla Fondazione Prada, dove resterà fino al 25 giugno. «Una mostra che può sfiancare un toro», dice il curatore Germano Celant: «Mille documenti, 500 opere più i fantasmi». I fantasmi sono le riproduzioni in bianco e nero di opere che facevano parte delle mostre originali ricostruite in una efficacissima scenografia pensata da Michael Rock e dal suo studio 2×4 di New York.
di Francesco Bonami per la Stampa del 16 febbraio 2018
Appunto vecchie foto d’ epoca sono ingigantite a grandezza naturale, creando l’ effetto che la nostra memoria ha sulla storia e sui ricordi – sfocato, nebbioso, inafferrabile ma presente. Se il bianco e nero sgranato delle immagini rappresenta la distanza temporale, le pareti di iuta grezza naturale danno alla mostra lo sfondo che unifica l’ immensa varietà di opere presentate.
«In questa mostra», spiega Celant, «si riesce a leggere la vera storia di un periodo, come quello in Italia tra le due guerre, complessissimo, ricchissimo, fatto di compromessi, contraddizioni e salti della quaglia. Un periodo pieno di eccezionali figure minori e oggi sconosciute ma che raccontano la fecondità della nostra cultura e dell’ arte italiana».
Siamo davanti a un dipinto di Balla del 1924, Fascisti e antifascisti , che per la sua freschezza e ambiguità potrebbe essere stato dipinto nel 1980. Un giovane millennial davanti a un’ opera del genere penserà a Balla come a un fascista o un antifascista? «Se pensiamo alla società di quel tempo», riflette ancora il curatore, «formale, retorica, con la gente che andava in giro con i cappelli a tuba, e guardiamo questo quadro, non si riesce a capire come un’ arte del genere potesse esistere».
Ma è proprio l’eccezionale contrasto tra una società che stava entrando nel rigido ordine fascista e la sua straordinaria creatività a fare di questa mostra uno strumento di riflessione sul nostro presente. Un progetto del genere ha richiesto più di due anni di ricerca, ma sembra essere fatto oggi, in sincronia con un’ Italia dove le parole della politica e della società più in generale assomigliano molto allo Zang Tumb Tuuum , le parole in libertà, i suoni e i rumori caotici che amavano tanto Marinetti e i futuristi, esprimendo l’ energia di un avvenire che però non sarebbe mai stato come se lo immaginavano.
Il caos della campagna elettorale di questi giorni sembra molto futurista. Ma la vera importanza della mostra sta nelle domande che pone alla cultura e all’ arte di oggi. Dove l’ arte e la cultura devono tracciare una linea oltre la quale non è possibile andare, oltre la quale è impossibile accettare un compromesso con ideologie e dittature che sfruttano l’ arte come il loro miglior strumento di propaganda? Domanda attualissime. Anche oggi artisti, intellettuali, architetti, registi e attori sono disposti a chiudere un occhio davanti a Paesi o poteri economici dove democrazia e giustizia sono spesso opinabili ma che dispongono di mezzi eccezionali capaci di realizzare i sogni creativi più ambiziosi.
«Post Zang Tumb Tuumm» sottolinea con lucidità come le migliori menti del tempo abbiano realizzato le loro opere più importanti – basta pensare alle architetture di Terragni – accettando l’ abbraccio megalomane e visionario della dittatura fascista.
La sezione che ricostruisce in otto grandi schermi, nel gigantesco deposito della Fondazione Prada, la mostra voluta da Mussolini a Roma nel 1932 al Palazzo delle Esposizioni per celebrare i primi dieci anni della rivoluzione fascista è un perfetto esempio di come propaganda, immaginazione e innovazione potessero sostenersi e inquinarsi a vicenda.
Cosa è quindi meglio, il fragore dei suoni futuristi, le contraddizioni politiche e morali di geni come Adolfo Wildt, Arturo Martini, Alberto Savinio, Giorgio de Chirico, Mario Sironi e tantissimi altri artisti e architetti del tempo, oppure il silenzio cupo imposto dalla dittatura fascista?
«Post Zang Tumb Tuuum» è un efficacissimo spaccato di quel cavallo di Troia che fu il compromesso con il regime, che tuttavia consentì all’ arte e alla cultura italiane di produrre idee e progetti che avrebbero fecondato la genialità destinata a esplodere nella neonata democrazia del dopoguerra.
L’intensa e ricca maratona si conclude con la famosa Crocifissione di Guttuso del Premio Bergamo del 1942 che valse la scomunica a chi andava a vederla, una piccola Guernica italiana, per entrare infine nel drammatico finale dove la benda cade dagli occhi svelando atrocità, ingiustizie e menzogne della dittatura e della guerra. A far da sfondo, le immagini di una mostra del 1945 a Palazzo Ducale di Genova, dove gli artisti misero in vendita opere a favore delle vittime della guerra appena conclusa e dove, tra foto e slogan sfocati, vien fuori una scritta che celebra sia i corsi e ricorsi della storia sia l’estrema puntualità di tutta la mostra: «Noi donne ».