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Libia-Italia. Le radici della paralisi di Roma nella crisi libica

La paralisi della diplomazia romana in questi giorni di crisi della Libia ha radici nei legami economici con la Quarta Sponda. I quali – a loro volta – risentono pesantemente delle ipoteche culturali con le quali si è messa l’Italia in condizione di contrattare “col cappello in mano” con quella che è stata una nostra ex colonia, e che l’Italia ha contribuito a creare come Stato, fin dallo stesso nome. Ipoteche culturali che vanno dissolte una volta per sempre, riconoscendo eventuali torti dell’Italia durante la colonizzazione, ma contestualizzandoli e ricordando anche quanto di buono è stato lasciato dall’Italia in quelle terre. Riportiamo quindi un articolo comparso su “Storia in Rete” n. 44 col quale si volevano puntualizzare alcuni aspetti della questione Italia-Libia. (SiR)

PER FAVORE, BASTA MEA CULPA SULLA LIBIA

Il mito degli “Italiani brava gente” sarà stucchevole ma quello degli italiani solo feroci colonialisti è anche più fastidioso (e bugiardo). Un mensile di storia a larga diffusione il mese scorso si è fatto prendere la mano sul colonialismo italiano in Libia, dando voce a forzature e mezze verità che, insieme ad un bel po’ di omissioni, hanno fornito una ricostruzione parziale e ingenerosa dell’attività italiana in Cirenaica e Tripolitania a partire dal 1911. Ricostruzione che sposa solo le “ragioni del risarcimento alla Libia per trent’anni di occupazione italiana”. Ecco invece quello che i lettori di «Focus Storia» non hanno potuto sapere

di Emanuele Mastrangelo da “Storia in Rete” n° 44 Storia In Rete - Il sito ufficiale di Storia In Rete

Se il negazionismo è una brutta bestia, il giustificazionismo non è da meno perché raccontando mezze verità si creano bugie ancora più grandi e difficili da smascherare. Come quella che esce dal pezzo “La 4a Sponda” di Gianpaolo Fissore, su “Focus Storia” del mese di maggio. Fissore, esperto di cinema prestato alla storia, ha preso il via con le frasi del presidente del Consiglio Berlusconi che, lo scorso settembre, hanno rappresentato l’autodafé italiano nei confronti della nostra ex colonia. Un autodafé sul quale ci sarebbe da fare molta dietrologia, magari basata su concetti semplici come “petrolio”, “affari”, “ricatti finanziari, politici e demografici”, problemi che però pertengono ai governanti ma non riguardano la nostra ragione sociale. Agli storici – e anche solo a chi si prende la briga di raccontare la Storia – il compito di appurare come si è arrivati all’oggi, cercando di spiegare, non certo di giustificare.

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Il pezzo parte in quarta con alcuni marginali episodi nella conduzione della guerra agli ottomani, sorvolando completamente sulla complessa situazione di Tripolitania e Cirenaica (ah, il termine “Libia” è di almeno vent’anni posteriore). Rischiariamo allora noi la memoria: i vilayet ottomani che corrispondono all’attuale Libia erano amministrati dai turchi ottomani ed erano abitati principalmente da arabi e berberi – sulla costa – e da nomadi sahariani (tuareg) o dalla confraternita della Senussia nell’interno. Una considerazione non dappoco – come vedremo più avanti. Le due maggiori etnie sono solo parzialmente fuse, e i vari clan e tribù sono in continua lotta fra loro. Parlare di un “nazionalismo libico” o di una “resistenza nazionale” è una forzatura storica immane, poiché nessuno fra gli arabi o i berberi allora aveva la minima coscienza di far parte di una “nazione” che partiva da Zuara e finiva a Bardia. Anzi, divisi da un secolare odio razziale (gli arabi pretendendo di essere i veri ed autentici depositari del messaggio maomettano, con tutti gli altri giunti buoni ultimi alla conversione), le due etnie non faticarono a polarizzarsi l’una in funzione anti-italiana, l’altra invece favorevole al Tricolore. E dunque, una parte della pretesa italiana di manifestarsi come liberatrice di Tripolitania e Cirenaica dal malgoverno ottomano è fondata su solide basi diremmo oggi di consenso popolare, almeno fra i berberi (come testimonia il contegno di città come Zuara, detta “la Fedelissima”).

Questo addentellato non trascurabile viene perfino accennato nell’articolo di «Focus Storia», senza che se ne traggano però le debite conseguenze: “il conte Volpi, invece, a tradimento, col generale Graziani e coi berberi venne da noi con la forza”, dice la citazione delle memorie di un ribelle arabo, Mohamed Khalifa Fekini (Feheni, secondo la grafia italiana dell’epoca). Dunque, una parte della popolazione dell’attuale Libia unita non doveva essere ostile agli italiani. Ma questo, evidentemente, è meglio che continui ad essere ignorato. Eppure, ignora oggi ignora domani, qualcosa ogni tanto sfugge… E intanto tocca leggere che – parola di Fissore – gli anni fra 1912 e 1921 furono “un periodo di relativa pace”. Una pace dovuta al fatto che “si cercò di stabilire alcune regole di convivenza che culminarono nella concessione degli statuti del 1919” e con “l’attenzione per la cultura locale” che il governatore Volpi “sembrò mostrare”. Ma questo finì presto, per la protervia degli italiani, ovviamente, come abbiamo letto dalle “indubitabili” parole di Fekini sopra citate.

E invece non andò così manco per niente. Fissore non si preoccupa troppo di cosa sia e come nasca la “resistenza libica” (virgolette obbligatorie): oggi affibbiare la patente di “resistente” a qualcuno è come dargli tre quarti di nobiltà, quindi inutile approfondire. Ma chi non voglia accontentarsi delle patenti patacche, e voglia invece guardare dietro le quinte, deve prendere atto per prima cosa che Tripolitania e Cirenaica furono occupate in poco meno di un anno fra 1911 e 1912. La situazione – nemmeno finita la guerra coi turchi – non era affatto pacifica. La strage di Sciara Sciat (dove i bersaglieri furono sterminati dagli irregolari arabi) aveva aperto gli occhi ai nostri: fra gli indigeni c’era chi non era affatto felice d’essere “liberato” dagli italiani, e ce lo faceva capire con esplicita ferocia. I prigionieri italiani venivano sadicamente trucidati e a queste azioni seguivano le rappresaglie (su cui tanto insiste Fissore, ovviamente omettendo che esse furono istigate dalla brutalità di cui erano oggetto i nostri militari caduti in mano nemica). Si alzarono delle forche, si impiccarono dei rivoltosi, forse un migliaio (Fissore cita l’esagerata cifra di quattromila morti secondo le notoriamente “attendibilissime” fonti libiche).

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La rivolta araba della “Quarta Sponda” dunque ebbe origine esterna: le tribù di confine venivano pagate ed armate da potenze ostili a Roma per fare quello che hanno fatto per secoli – saccheggiare e razziare – ma farlo, questa volta, in funzione precipuamente anti-italiana. Contro questi rivoltosi l’Italia sopporta a lungo, addirittura rinunciando all’amministrazione dell’entroterra cirenaico che diventa un emirato senussita dal 1917, ancorché de iure sotto sovranità italiana. Nel 1919 vengono proclamati degli statuti per le colonie, che concedono ampi diritti ai cittadini mussulmani, ma i saccheggi e le incursioni delle varie tribù non sottomesse continuano (fra queste, anche quella di Fekini), mentre la Senussia, a cui l’Italia aveva garantito un emirato in Cirenaica meridionale con due accordi (Acroma, 1917 ed Er Regima, 1920) anziché ottemperare al disarmo delle proprie bande, si accorda con altre tribù libiche in funzione anti-italiana. Con la nomina di Giuseppe Volpi da parte di Giolitti a governatore delle colonie nordafricane si decise di applicare l’unica strategia possibile: bastone e carota. Da un lato si cercò di aumentare il prestigio italiano fornendo provvigioni e servizi alle popolazioni coloniali e accordandosi con i senussi nel già citato patto di Er Regima. Dall’altra si decise di troncare il contrabbando d’armi che sosteneva i rivoltosi e che passava per il porto di Misurata Marina, l’unico non controllato dagli italiani. E’ questa azione – fatta per ristabilire la legittima sovranità italiana – che le memorie di Fekini identificano come “attacco a tradimento” nel bel mezzo di “trattative” per la “pace”. Si trattò, comunque, del primo atto della riconquista della colonia.

Per altri anni le forze italiane riusciranno a sottrarre una dopo l’altra le oasi ai rivoltosi, ricacciandoli sempre più verso l’entroterra: la sovranità italiana, finora accettata solo de iure, venne estesa anche de facto. Insomma, le cose stavano diversamente da come le racconta «Focus Storia»: la guerra alle popolazioni libiche non la inaugurarono gli italiani (che nel 1911 intendevano farla solo ai turchi, occupanti né più né meno di noialtri, solo che lo erano da secoli) e soprattutto non si scatenò con l’arrivo di quello che viene considerato il mostruoso artefice di tutte le nefandezze italiane vere o presunte: Rodolfo Graziani, questo capro espiatorio tanto antipatico al ras della storiografia colpevolista del colonialismo italiano, Angelo Del Boca. A Graziani si imputa perfino l’aver scatenato una “guerra santa”, per aver utilizzato cioè contro i libici mussulmani gli ascari eritrei di religione copta (e qui ci si chiede: i marinai e i bersaglieri di Giolitti invece di che parrocchia erano?). Fissore trascura di precisare che il nerbo delle colonne di Graziani era formato dai superbi reparti di meharisti, libici mussulmani volontariamente arruolati come truppe coloniali. Così come nell’articolo si afferma che l’Italia avrebbe rotto gli accordi con la Senussia nel 1923, costringendo l’emiro Idris alla fuga in Egitto: falso. Come visto, gli accordi fra Italia ed emirato furono più volte disattesi da Idris, che continuò a tollerare campi di armati nei territori concessi dall’Italia alla sua amministrazione. Nel marzo 1923 l’Italia chiese per l’ennesima volta alla Senussia di ottemperare agli accordi di Er Regima, ma per tutta risposta i senussi si radunarono in armi ad Agedabia, per mostrare i muscoli. Era la fine di ogni possibile ulteriore accomodamento.

Con la fine degli anni Venti solo il Gebel (l’Altopiano di Barca) che fronteggia il mare in Cirenaica resisteva ancora alla riconquista italiana. Lo si doveva al terreno – accidentato e ricco di nascondigli – e ai rifornimenti che dal compiacente Egitto sotto protettorato britannico provenivano tramite la Senussia. Il capo di questa resistenza era il celebrato Omar Al Mukhtar, vicario dell’emiro Idris esule in Egitto. Per sconfiggere i rivoltosi vennero allestiti, è vero, anche campi di concentramento, come avevano fatto gli inglesi in Sudafrica. Mentre è probabilmente falso – invece – che in Libia furono usate le armi chimiche, come invece suggerisce Fissore citando ad arte una lettera di Pietro Badoglio a Domenico Siciliani, che auspica l’uso dell’iprite, ma non dice affatto che essa fu poi realmente usata. Il bilancio alla fine è comunque pesante: sessantamila morti e distruzioni immani per una guerra non iniziata e non voluta dagli italiani.

Insomma, una serie di imprecisioni, mezze verità e bugie surrettizie, per puntellare le quali addirittura il direttore della rivista nel suo editoriale arriva a parlare di “libici che preferivano restare padroni in casa propria” (ma – abbiamo visto, padroni non lo erano nemmeno prima degli italiani) e di “armi chimiche vietate dalla Convenzione di Ginevra” usate secondo “varie e indiscutibili testimonianze”… varie? L’articolo cita (in modo forzato) una lettera. Indiscutibili? Se ne discute da anni, ma una prova certa non è ancora uscita fuori, a differenza della questione dell’iprite in Abissinia, “segreto di Pulcinella” su cui si montò tutta la stuccosa polemica (tutta giornalistica e niente affatto storica) fra Montanelli e Del Boca che molti ricorderanno.

E qui arriviamo al vero cuore del problema: l’equivoco fondamentale su cui è basata ogni requisitoria anticolonialista ed anti-italiana è che il nostro Paese avrebbe invaso una terra indipendente e pacifica, facendone un campo di battaglia e opprimendo i sentimenti nazionali di un popolo libero e cosciente della propria nazionalità. Un equivoco basato – oltre che sul nascondere dati e fatti fondamentali – sull’applicazione ad un mondo del tutto diverso dal nostro le categorie che si adattavano all’Europa del 1900 (meglio: quella del secondo Novecento) ma che in Africa non avevano alcun significato. Si parla dunque di “occupazione della nazione libica”, ma non vi era alcuna “nazione” che veniva occupata. Vi erano “territori”, disorganici fra loro, abitati da popolazioni seminomadi, soggette comunque ad un potentato straniero. Si parla di “esproprio delle terre libiche”, ma non si considera che il concetto di proprietà privata della terra – nel nome del quale si vorrebbe ravvisare un crimine o un’oppressione italiana – era del tutto alieno alle strutture tribali dei popoli colonizzati. Si parla di “stragi ed eccidi” commessi dall’Italia, e si tace che contemporaneamente gli indigeni si massacravano allegramente fra di loro per motivi tribali, etnici, religiosi o per semplice abitudine alla scorreria e al saccheggio, e che continuarono a farlo finché – ancorché coi mezzi discutibili che vanno stigmatizzati con fermezza ma senza mai dimenticare che la sensibilità e il modo di fare la guerra si è voluto ed è inutile considerare con gli occhi di oggi comportamenti di anche meno di un secolo fa – non fu imposta una “pax italiana” a tutta la colonia. Così l’articolo fa sembrare Fekini (complice anche la mitizzazione creata da Angelo Del Boca su questo personaggio) una sorta di resistente legittimo che “trattava la pace per noi [libici] e per il nostro Paese” (ma, come abbiamo visto, un “paese” libico nel 1921 non era neppure in mente Dei) “attaccato a tradimento” dalle truppe italiane di Volpi e Graziani. La campana italiana – a volerla sentire se non spiace – è molto differente: Fekini era – secondo quanto riportato da Volpi nel suo annuale rapporto a Roma del 1922 – un “provocatore” e un “ribelle”, rappresentante al più di sé stesso e la sua tribù, in perenne lotta con gli italiani ma anche con gli altri indigeni cirenaici – arabi o berberi.

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Se gli italiani cercavano di stabilire un regime di vita comune fra indigeni e coloni, essi “schiacciavano le peculiarità culturali dei popoli sottomessi”, se invece garantivano una doppia via (per esempio, scuole italiane per i coloni, madrasse per gli indigeni, tribunali di diritto romano per i coloni, sciariah per gli indigeni etc.) facevano “segregazione razziale” e “apartheid”. Se gli italiani impiccavano i rivoltosi erano dei “massacratori”. Se gli arabi inchiodavano vivi i bersaglieri, o li eviravano, o cucivano gli occhi ai prigionieri era “resistenza”. Un giudizio sbilanciato che ben si nota nei libri di Del Boca che hanno ispirato l’articolo di Fissore: le atrocità arabe vengono registrate (se proprio si deve…) senza una parola di commento. Quelle italiane sono sotto la lente d’ingrandimento, e per ogni impiccato per mano italiana ci sono lunghi mea culpa.

Se resta stuccosa l’immagine del “buon italiano”, quella della dominazione coloniale fatta di “atrocità e infamie” à la Del Boca non regge di fronte ai bilanci che la Storia può trarre: oggi la Libia è una nazione unita e dotata di infrastrutture solo grazie al dominio coloniale italiano e al lavoro di decine di migliaia di coloni, poi cacciati via senza complimenti ed espropriati di tutto per “restituire” al popolo libico qualcosa che non è mai stato suo. Fra i lasciti del nostro dominio, una serie di istituzioni politiche e giuridiche nel nome delle quali si vuole imputare al nostro Paese una serie pressoché infinita di crimini (non si dimentichi che la Libia imputa all’Italia uno sterminio di quasi un milione e mezzo di persone, oltre venti volte le stime reali e il doppio della reale popolazione libica del periodo!). Se una guerra spietata è stata condotta dagli italiani contro i rivoltosi libici (e non già contro “il popolo libico” tout court, sia chiaro) essa aveva come scopo la creazione di una realtà nuova, dove la sovrabbondanza demografica italiana di allora poteva vivere accanto alla tradizionale cultura indigena. Al contrario, la Libia che ci chiede oggi risarcimenti e mea culpa ha costruito il proprio relativo benessere sullo sfruttamento fino all’esaurimento dei lasciti coloniali italiani e la distruzione delle realtà nomadi e tribali, alle quali è stata imposta un’urbanizzazione coatta molto più violenta culturalmente delle misure coloniali italiane. Del resto, nella migliore tradizione araba, il governo di Tripoli invece di investire al massimo per il benessere dei libici preferisce essere protagonista della scena finanziaria mondiale (da qui l’interesse di Berlusconi per l’accordo “riparatorio”) per cui i libici campano ancora in gran parte grazie alle opere realizzate dagli italiani, staranno meglio grazie alle opere che l’Italia colpevolizzata si è impegnata a realizzare nel prossimo futuro mentre la cricca di Gheddafi si guarda in giro per il mondo per spendere al meglio (speculazioni e investimenti) i soldi della Libia. Ulteriore capitolo di uno sfruttamento “interno” che sembra non turbare nessuno. Ma se, ieri come oggi, gli africani si opprimono fra loro, questo non provoca conati e rimorsi ai masochisti di casa nostra per i quali continua a valere mito del “Buon selvaggio” declinato in chiave anticolonialista, dove l’europeo è sempre e comunque avido, sanguinario e sfruttatore mentre l’indigeno invece è una povera vittima strappata dalla sua arcadia primitiva ma felice.

Emanuele Mastrangelo

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