La cultura potrebbe essere il petrolio dell’Italia. Lo dice un rapporto della Ue. Che accusa il nostro Paese che «non ha una strategia nazionale per lo sviluppo del suo settore culturale e creativo». Peggio, anziché investire in questa preziosa risorsa, l’Italia che fa? Continua a tagliare (-35% tra il 2008 il 2011).
di Giovanni Del Re da Linkiesta del 25 settembre 2012
Potrebbe essere il “petrolio” italiano, una risorsa immensa su cui far ripartire la crescita – eppure l’Italia di questo incredibile giacimento non sa che farsene. Parliamo della cultura che Bruxelles vede come un cruciale volano di sviluppo per tutta l’Ue. E che invece, con sorpresa mondiale, proprio l’Italia che attira milioni di persone da tutto il mondo per il suo straordinario patrimonio artistico-culturale, trascura da troppo tempo. Con il rischio che proprio quella identità che il mondo ci riconosce vada perduta.
È serio il monito lanciato da un rapporto preparato per conto della Commissione Europea dalla Eenc, la Rete europea degli esperti sulla cultura, e pubblicato in questi giorni (molto discretamente, a dire il vero) sul sito del commissario alla Cultura Androulla Vassiliou. Un rapporto – ce ne sono anche su vari altri stati membri – commissionato da Bruxelles nel quadro della preparazione del bilancio multiannuale dell’Ue 2014-20, e soprattutto dei fondi strutturali, per meglio individuare le priorità. E per Bruxelles una cosa è chiara: la cultura è una priorità perché vale, e tanto, anche in termini economici. Basti dire che in un altro rapporto, presentato a gennaio scorso dalla stessa Commissione, si sottolineava come la cultura e le attività creative costituiscano ormai il 3,3% del pil Ue (contro il 2,6% del 2006) e il 3% dell’occupazione. Un potenziale particolarmente elevato per l’Italia, che si vanta di ospitare il 70% dei beni artistici mondiali. «In linea di principio – si legge nel rapporto appena pubblicato – se vi fosse un serio tentativo di dare alla cultura la giusta priorità nell’agenda politica del paese, vi potrebbe essere una seria possibilità che i settori culturali e creativi diano un importante contributo nel ridisegnare la tanto agognata formula per una nuova crescita per l’Italia».
Già, è proprio in quel «se» che casca il proverbiale asino. Perché, avverte il rapporto, «al momento il paese non ha una strategia nazionale, per quanto generale o provvisoria, per lo sviluppo del suo settore culturale e creativo». Peggio, anziché investire in questa preziosa risorsa, l’Italia che fa? Continua a tagliare, secondo il documento -35% tra il 2008 il 2011, per arrivare allo 0,2% del pil. Negli anni Cinquanta e Sessanta era quattro volte tanto. In cifre assolute, l’Italia, a fronte di un patrimonio artistico culturale molto più vasto di qualsiasi altro paese europeo, ha disposizione per il settore 5,6 miliardi di euro contro i 7,5 miliardi della Francia o i 12,5 miliardi della Germania, che non ha né Pompei, né il Colosseo, né gli Uffizi né Venezia. Risultato: «la mancanza di risorse sta portando frequenti episodi di degrado di beni storici (v. ad esempio Pompei, ndr) e a danni che stanno avendo vasta eco e stanno creando la percezione di decadenza di alcuni siti culturali italiani». Il danno non solo materiale, ma anche di immagine, può essere devastante: «l’attuale identità culturale dell’Italia, ancora in discreta salute (…) può essere collegata a una rendita storica consolidata, piuttosto che a intelligenti strategie di conservazione e sviluppo. Come conseguenza, tale identità potrebbe morire se non si farà qualcosa per impedirlo».
Al massimo in Italia la cultura è assai spesso semplicemente «ancillare», dice il rapporto, al turismo tradizionale. Con un effetto perverso: la “museizzazione” delle città d’arte. «Lo stesso turismo culturale – avvertono ancora gli esperti – soffre del progressivo impoverimento della scena e della vitalità culturale delle “città d’arte”, che stanno progressivamente rimodellando il loro tessuto urbano e sociale per adattarsi in modo incondizionato ai bisogni e alle attese dei turisti, trasformandosi così, gradualmente, i “parchi a tema” senza vita».
Tutto questo, in realtà, a leggere il rapporto è anzitutto il frutto di un sistema profondamente guasto. Cominciando dal fatto che «grosso modo un italiano su due in sostanza non è interessato alla cultura, e in particolare alla sua produzione, conservazione e sostegno». E poi c’è, neanche a dirlo, la politica che ha occupato in modo pernicioso il comparto. «Il principale ostacolo a una svolta – leggiamo infatti – è la tendenza della dirigenza politica italiana a usare la cultura come una misura anticiclica e come ammortizzatore sociale, o come aree protette per la creazione di rendite di posizione», costituendo «sacche di privilegi ed inefficienza nei settori culturali». Potremmo continuare con la demotivazione per i giovani, cui viene ripetuto, ricorda ancora il rapporto, che studiare materie culturale «non porta lavoro», perché per gli italiani, denuncia Bruxelles, la cultura è simbolo di perdita e di sussidio. E così chi invece ha osato fare scelte culturali, si trova costretto molto spesso a cercare posti all’estero dove gli italiani sono ancora ricercati e dove la cultura è business redditizio.
Ci vuole, insomma, un profondo ripensamento, se si vuole non solo che la cultura porti crescita e sviluppo, ma che sopravviva in Italia. E dire che si potrebbe fare tanto. Ad esempio, dice Bruxelles, la sola completa digitalizzazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese promuoverebbe al contempo alte tecnologie, cultura, lavoro per moltissime imprese e tanti posti di lavoro. Più in generale, la fusione tra cultura e creatività con la cultura d’impresa, che già portarono ai successi della moda e del design Made in Italy, «potrebbe portare a una nuova ondata di talento imprenditoriale nei settori culturali e creativi». Il potenziale per una rinascita tutta italiana fondata sul “petrolio” nostrano, insomma, c’è tutto. Solo che bisogna coglierlo.
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Inserito su www.storiainrete.com il 26 settembre 2012