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L’epopea dell’Endurance: venti mesi fra i ghiacci d’Antartide

Franco Brevini da “Oggi”

L’Endurance inclinata tra i ghiacci del Mare di Weddell, un’insenatura del continente antartico. Queste immagini straordinarie furono realizzate da Frank Hurley, un operatore cinematografico freelance arruolato nell’equipaggio per documentare la spedizione. Mentre la nave affondava, 10 mesi dopo essersi incagliata, Hurley arrivò a tuffarsi sott’acqua, nella parte inclinata della nave, dov’era la cabina in cui erano conservate le lastre fotografiche e le pellicole, e riuscì a salvarle.

A bordo con i 28 uomini c’erano anche 70 cani. Avrebbero dovuto trainare le slitte durante la traversata dell’Antartide. Purtroppo, non sopravvissero. Il ritrovamento nel Mare di Weddell del relitto della Endurance, la nave dell’esploratore polare inglese Ernst Shackleton, è stato annunciato il 9 marzo dal Falkland Maritime Heritage Trust. È uno di quegli eventi che verranno ricordati a lungo nella storia dei viaggi e dell’esplorazione.

Vicende analoghe, quali l’avvistamento dello scafo del Titanic, il ritrovamento del corpo di Mallory sotto la vetta dell’Everest o la presunta identificazione nelle acque di Newport dell’Endeavour, la nave del grande esploratore James Cook, riportano di colpo nella contemporaneità imprese avvolte nella leggenda. Forse ci suggeriscono che l’eroismo e le grandi sfide sono meno lontani da noi di quanto crediamo.

Certo un anonimo finanziatore ha sborsato 10 milioni di dollari per consentire ai due droni sottomarini della squadra di Endurance22, guidata dall’archeologo britannico Mensun Bound, di effettuare il fortunoso ritrovamento. Purtroppo, pur essendo rimasto in ottime condizioni grazie alle acque gelide e poco saline di quel mare glaciale, il relitto giace a 3.008 metri di profondità e si trova in uno dei luoghi più remoti del pianeta.

La nave del testardo inglese, che era alla sua terza esperienza antartica, è stata identificata a circa 6 chilometri di distanza dal punto in cui, stritolata dai ghiacci galleggianti, si era inabissata 122 anni fa. Le telecamere ad alta risoluzione dei droni hanno filmato lo scafo squarciato dalla pressione dei ghiacci, sul quale spiccano ancora le lettere dorate del nome della nave. Aveva tre alberi ed era lunga 44 metri. Mai nome fu in verità più profetico: Endurance significa infatti resistenza e di questa dote gli esploratori di Sua Maestà dovevano averne da vendere.

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Certo ne aveva il capitano, che sapeva bene che uomini ci volevano per quelle imprese. Per reclutare i marinai che lo accompagnassero in Antartide tra il 1914 e il 1916 Ernst Shackleton aveva pubblicato sulla stampa dell’epoca un’inserzione che non lasciava molto spazio alle illusioni: «Stipendio ridotto; freddo intenso; lunghi mesi di buio completo; pericolo costante; rientro incerto».

Quando decise di organizzare quella che, con prosopopea tardivamente vittoriana, si chiamava Imperial Trans-Antarctic Expedition, i giochi al Polo Sud si erano già conclusi. L’esploratore norvegese Roald Amundsen lo aveva raggiunto il 14 dicembre 1911, precedendo di due settimane la squadra di Robert Falcon Scott, che testardamente non aveva voluto usare i cani da slitta. Dopo una marcia massacrante di oltre mille chilometri, gli inglesi erano andati a morire in mezzo alla bufera a una ventina di chilometri dal deposito di rifornimenti più vicino. Quello che restava da fare era la traversata completa del continente antartico: la meta di Shackleton.

Insieme a 27 uomini, salpò nell’agosto del 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania. Il Mare di Weddell è una desolante distesa di ghiacci racchiusa dal gelido abbraccio della penisola antartica. L’Endurance vi giunse il 10 gennaio 1915 e nove giorni dopo era già bloccata nella morsa della banchisa. Insieme al suo ingrato corredo di lastroni scricchiolanti andò alla deriva per dieci mesi, ma il 21 novembre la pressione aprì paurose falle nella fiancata e l’imbarcazione dovette essere evacuata. Iniziava una delle più avventurose odissee della storia dell’esplorazione.

Dopo avere più volte spostato il campo, i naufraghi capirono che non avrebbero potuto resistere a lungo. Imbarcati a bordo di una scialuppa, iniziarono una difficilissima navigazione, verso l’Isola Elefante. Era uno scoglio coperto di ghiacci, ma, per quanto inospitale, era terraferma. In compenso il luogo non avrebbe potuto trovarsi più fuorimano: lontano dalle rotte delle navi, a soli 240 chilometri dall’Antartide.

Erano trascorsi 500 giorni dall’inizio della spedizione. Shackleton non ci mise molto a rendersi conto che sull’Isola Elefante nessuno li avrebbe soccorsi. Così rimise in mare la scialuppa di soli sette metri e vi salì con un pugno di uomini. Lo attendevano 1.500 chilometri di acque burrascose e infestate dagli iceberg, con il peggior clima della Terra. Ci vollero 15 giorni e furono certamente i peggiori della vita di quei marinai, ma alla fine le coste della Georgia del Sud vennero raggiunte.

Purtroppo non era ancora finita. Gli inglesi erano approdati alla costa meridionale e l’unica stazione baleniera, Stromness, si trovava su quella settentrionale. Così i naufraghi ripartirono e attraversarono 50 chilometri di montagne e di ghiacciai inesplorati. Alla fine arrivarono a Stromness, da cui l’indomabile esploratore organizzò i soccorsi del resto dei suoi uomini rimasti all’Isola Elefante. Li raggiunse con un rimorchiatore cileno al quarto tentativo, il 30 agosto 1916, quattro mesi dopo averli lasciati.

Nonostante le infinite traversie toccate alla spedizione, Shackleton aveva riportato tutti a casa. Non poteva immaginare allora che la sua storia personale si sarebbe conclusa proprio nella Georgia del Sud. Cinque anni dopo con la nave Quest ripartì per l’Antartide. Approdò di nuovo al porto di Grytviken, dove già aveva sostato un mese con l’Endurance. La notte del 5 gennaio ebbe un attacco cardiaco e morì. Aveva solo 48 anni. Un cippo di pietra lo ricorda nel minuscolo cimitero di quell’isola in capo al mondo. Sotto il nome una semplice scritta: «Explorer».

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