“Fratelli d’Italia,/l’Italia s’è desta; /dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa./ Dov’è la vittoria?/Le Porga la chioma;/ che schiava di Roma/Iddio la creò”. E ora come la mettiamo? Il Canto nazionale è forse apologia dell’ “Imperium”, cioè di una Potenza assoluta (Roma) che domina la Vittoria, sua schiava? Secondo il bucolico e georgico Virgilio Marone, cantore di Augusto, Roma doveva debellare i popoli che le resistevano (i “superbi”), risparmiare i vinti (previo il loro salasso) e reggere il mondo con le leggi.
di Aldo A. Mola da Il Giornale del Piemonte del 15 febbraio 2015
A detta del più realistico Cornelio Tacito, i Romani facevano il deserto dove poi dicevano di aver portato la pace. In casi estremi spargevano il sale sulle rovine delle città vinte, come sui resti di Cartagine. Quando soggiogarono la Grecia non ne svalutarono la moneta. Le cambiarono il nome. La ridussero ad Acaia. Perpetrarono stragi efferate, deportarono e annientarono popoli, in gran parte resi schiavi. E se ne vantarono pure. Bastino la Colonna Traiana e quella Antonina: descrizione analitica della guerra, completa di crudeltà, ed esaltazione della Vittoria (schiava di Roma) e dell’umiliazione del vinto, come Decebalo, re dei Daci. Altri sovrani furono trascinati in catene dietro il carro del vincitore nella marcia trionfale e poi assassinati: Perseo re di Macedonia, Giugurta re di Numidia, Vercingetorige, strenuo difensore della libertà della Gallia. Che cosa fare allora? Abbattere quelle Colonne che costituiscono apologia dell’Imperium romano fondato sulle armi e festeggiato con mesi di spettacoli sanguinosi al Colosseo sulla pelle dei popoli sconfitti? Poco distante dall’Arco di Costantino, quello, tanto più modesto, elevato in onore di Tito ricorda che gli ebrei furono combattuti da Vespasiano e sconfitti da suo figlio, che recò in bottino anche l’Arca Santa e la menorah, come narra il bassorilievo lì istoriato. A “finire il lavoro” (secondo la terminologia usata nelle inconcludenti guerre dei nostri giorni) provvide poi l’imperatore Adriano che abbatté quanto rimaneva di Gerusalemme e determinò la diaspora quasi completa degli ebrei dalla Palestina.
E come la mettiamo con le “apologie” alla luce del sole adesso che una insulsa leggina approvata dal Senato commina sino a tre anni di galera e 10.000 euro di multa “a chiunque pone in essere attività di apologia, negazione, minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra (…) o propaganda idee, distribuisce, divulga o pubblicizza materiale o informazioni con qualsiasi mezzo, anche telematico fondati sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico o religioso (…) fa apologia o incita a commettere o commette atti di discriminazione, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” non solo a mezzo stampa, ma anche “utilizzando reti di telecomunicazione disponibili”?
Approvata in pochi minuti dal Senato con consenso inconsueto (234 voti favorevoli, 8 astenuti e 1 contrario), proprio mentre le statistiche dicono che la libertà di stampa in Italia è crollata sul fondo della classifica planetaria, la leggina conferma che non basta essere senatori per essere saggi. Accolta dall’imbarazzato silenzio dei commentatori (televisioni, quotidiani…, con la coraggiosa eccezione di Salvatore Sechi che ha ricordato il monito di duecento storici professionali contro la sua approvazione), essa passerà ora alla Camera e, complice l’isterismo dilagante, forse verrà persino approvata: fermo restando che può essere impugnata per manifesta incostituzionalità (e meno male che nella Corte siedono storici insigni quali Giuliano Amato).
Al momento bisogna sperare che cada nel nulla, come tante altre norme deliranti, perché, come ogni legge dal doppio e triplo taglio, questa potrà avere conseguenze devastanti per la libertà di pensiero e della sua pubblica espressione. Che fare? Abbattiamo l’arco di Tito? Demoliamo la Mole Adriana? Smettiamo di cantare l’inno di padre Atanasio Canata? Quest’ultima è la cosa più facile anche perché il Canto Nazionale (“Fratelli d’Italia”) secondo un’altra leggina va studiato a scuola benché non sia mai stato formalmente proclamato “inno nazionale” con apposita norma. Portando la destra sul petto sinistro fingiamo lo sia, ma per ora non lo è affatto. Per coerenza con la leggina sul negazionismo butteremo alle fiamme “Marzo 1821”, l’ode in cui Alessandro Manzoni spiegò che gli italiani sono gente “una d’arme, di lingua, di altare/ di memorie di sangue e di cor”: ritratto a tutto tondo (completo di motivazioni razziali, religiose, storico-memoriali) di un “popolo eletto”, la cui rivendicazione identitaria per motivi logico-cronologici comporta la discriminazione delle altre genti (da gens: genere, quindi “sangue”)? E strapperemo la “lotta di liberazione” invocata dal gracile Giacomo Leopardi nella “Canzone all’Italia”, inno al volontariato sacrificale (“l’armi, qua l’armi/ combatterò sol io, procomberò…”)? Prima di lui, a metà Trecento l’aveva predicata Francesco Petrarca con i versi quasi due secoli dopo ripresi da Niccolò Machiavelli a conclusione del celeberrimo “De Principatibus” : “Virtù contra a furore/ prenderà l’arme; e fia il combatter corto:/ ché l’antico valore/ nelli italici cor non è ancor morto”, vera e propria apologia della guerra di liberazione dal dominio straniero e anche di annientamento del nemico in nome della superiorità morale, molto più che etnica, virtù contro furore, la spada giusta contro quella belluina, le armi democratiche contro quelle rozze e fanatiche. Tutte tagliano, ma, trafitto il nemico, le prime escono senza macchia, come la lancia di Achille che ferisce e cauterizza….
La leggina approvata dal Senato è una imitazione pedissequa di quelle introdotte in altri paesi europei per condannare chi nega o sminuisce (nei metodi e nei numeri) lo sterminio degli ebrei da parte del nazismo. Ove varata, la legge non ha impedito che l’antisemitismo sia dilagato e dilaghi in forme sempre più aggressive né che i governi degli Stati anti-negazionisti facciano affaroni con i regimi che pubblicano, diffondono e insegnano i Protocolli dei Savi di Sion e con altri regimi liberticidi e crudeli e conducano guerre sanguinose dagli esiti incontrollabili. E il caso della Francia, che ha sempre la coda di paglia dell’ “affaire Dreyfus” e nel 1940-1945 contò il maggior numero di antisemiti dell’Europa non originariamente nazista.
Quanti negano la “soluzione finale” della Germania nazista ai danni degli ebrei (o lo sterminio degli armeni da parte dei turchi o i tanti altri massacri perpetrati nel presente e nel passato prossimo e remoto) vanno confutati, documenti alla mano, messi alle corde e azzittiti sul piano storiografico, senza però farne i nuovi martiri di una libertà di pensiero di segno capovolto. Peggio ancora è immergere lo “sterminio” del 1938-1945 nell’“antisemitismo”, che ha una storia millenaria (va riletta la grande opera di Poliakov!), e nel brodo indistinto dei “crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra” definiti dalla corte penale internazionale, che giudica e manda secondo che avvinghia e che tra qualche tempo verrà àdita anche dai Palestinesi contro lo Stato di Israele.
Le leggi regolano i rapporti tra lo Stato e i cittadini e tra i cittadini: rispondono a necessità. Diversamente sono “grida” di manzoniana memoria. La norma in corso di approvazione in Parlamento non colpisce affatto il bersaglio: è una verbosa deprecazione di alcune tra le molte possibili apologie della guerra e dei suoi effetti collaterali. Ma pretendere di abolire per legge la guerra, l’odio o l’immoralità, peggio che infantile è pericoloso.
Da un canto dovremmo allora demolire la Basilica di San Pietro voluta da papa Giulio II che promosse la guerra contro gl’invasori francesi al grido di “Fuori i barbari”. Non è forse vero che i francesi di Carlo VIII e di Francesco I di Valois erano infami canaglie, al pari dei lanzichenecchi che saccheggiarono Roma nel 1527 nell’indifferenza di Carlo V d’Asburgo, Sacro Romano Imperatore. Tre anni dopo fu la volta di Firenze, ridotta allo stremo, soggiogata malgrado Michelangelo e restituita ai de’ Medici. Ma questo forse non lo si può più dire, perché non è politicamente corretto e non sarebbe gradito a chi pretende mettere la mordacchia sia alla storia documentata sia alla ricerca innovativa.
A conforto di chi cerca di impantanare la storiografia nella melassa della negazione del negazionismo (un doppio errore, dunque) va ricordato che il mito fondante di Roma, a parte il fratricidio di Romolo e Remo (che poi è meno grave, in fondo, di quello tra Caino e Abele…), fu il ratto delle Sabine, perpetrato dai giovani ringalluzziti romani, come accade oggi in tante infelici regioni del pianeta ove i fedeli di questa o quella “religione” razziano e si spartiscono le femmine per motivi non sempre spirituali.
Se la leggina (che modifica l’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n.654 detta “Reale” dal ministro che la propose, il repubblicano Oronzo Reale, nativo di Troia) fosse approvata dalla Camera ed entrasse in vigore costituirebbe terreno di contenzioso vastissimo e, ciò che più va temuto, potrebbe essere piegata a scopi e usi impropri. Non v’è bisogno di scomodare il caso di Julius Evola, che fu perseguito come ispiratore di alcuni “destrorsi” che forse non ne avevano neppure mai letto le opere o non le avevano capite, come ricorda Gianfranco De Turris nella nuova edizione di “Il Cammino del Cinabro” ( Ed. Mediterranee).
Più leggi, meno libertà: più spazio ai querelanti, più campo a “interpretazioni” e a “sentenze creative” su libertà di ricerca, di studio, di confronto pacato. Prima che venga dato un ulteriore giro di vite dell’oscurantismo e del conformismo dilagante, va detto in modo chiaro che il negazionismo non si combatte con una nuova Inquisizione, con una “caccia alle streghe”, mescolando in un unico calderone realtà storiche diversissime e generiche come i “crimini contro l’umanità” e i “crimini di guerra”: fantasmi dinnanzi ai quali lo storico ripete con l’Evangelo “scagli la prima pietra, chi è senza peccato…” .
Il rischio che un Parlamento mezzo incostituzionale approvi – dopodomani è il 415° dell’abbruciamento di Giordano Bruno – una legge che potrebbe soffocare le residue libertà di studio è tra i motivi che fanno sperare nella “extrema ratio”: la fine della legislatura, per tanti e anche più importanti motivi ormai al capolinea. Come disse il Verbo: “questi non sanno quello che fanno”.