Il presepe ha dalla sua la tradizione: valore inalienabile, che nessuno può aggredire perché costituisce una forza difficilmente ridimensionabile, di fatto la sua essenza. Alcune delle sue valenze e dei suoi simboli hanno radice lontana e, in un modo o nell’altro, sono rimasti tali fino ai nostri giorni. Forse è proprio questo suo legame con la tradizione a renderlo una presenza necessaria quando si cerca non perdere di vista le proprie origini, il proprio essere cristiani, non solo per fede, ma soprattutto per cultura.
È quindi abbastanza sintomatico che oggi il presepe abbia ritrovato una diffusione che in passato pareva messa un po’ in crisi dall’albero di Natale con annessi e connessi. E se c’è chi prova con ogni mezzo a rilanciare la simbologia sostanzialmente laica delle festività, con “innovazioni” ai limiti del paradosso (dagli alberi addobbati e posti al contrario, come un lampadario, fino ai “Babbi” Natale a dimensione d’uomo che si arrampicano su grondaie e balconi), in questo nostro Natale sembra proprio che il presepe abbia ritrovato i passati fasti. Sempre un effetto del ritorno alla tradizione? Quasi certamente, ma soprattutto espressione del bisogno di raccontare quella festa, quell’annuncio di pace e di salvazione che troppo spesso dimentichiamo.
Ma la tradizione del presepe è una tradizione composita, frutto di un’evoluzione, che non solo si è avvalsa delle certezze teologiche, ma che ha anche lasciato un discreto spazio alla creatività dell’uomo. All’inizio ci hanno pensato i Vangeli apocrifi, testi più tardi rispetto ai Vangeli canonici, che hanno “umanizzato” quell’evento semplicemente descritto dai quattro evangelisti, con figure e colori, fatti e scene, quasi sempre frutto della fantasia. Dal bue e l’asinello fino alla struttura della grotta-stalla-casa in cui il Bambino venne al mondo: sono forse i temi principali “inventati” dagli apocrifi che, a poco a poco, sono diventati tradizione, parte integrante del presepe. Elementi necessari alla sua struttura narrante, all’affermazione del “racconto” che si snoda dalla ricerca di un riparo per Maria e Giuseppe, fino all’arrivo dei Re Magi.
I tre sapienti giunti da Oriente, che fossero re non lo sappiamo (anche questo è un effetto degli apocrifi), sono un po’ l’anello di congiunzione tra Vangelo e fantasia. Ne è emblema sostanziale la stella da loro seguita come traccia vivida e immaginata addirittura come “cometa”, per i più pignoli niente meno che l’Halley! Il presepe, in contrasto con la sua etimologia (letteralmente significa “dinanzi al chiuso”, “dinanzi al recinto”), è diventato una sorta di “opera aperta” nella quale ognuno ha inserito quello che ha voluto senza fermarsi davanti ad alcun paradosso.
Partendo dal punto focale, il luogo della nascita, troviamo un’evoluzione architettonica senza freni: dalla grotta al tempio diroccato, dalla stalla al più complesso agglomerato, fino alle recenti soluzioni che hanno posto l’ex-mangiatoia all’interno di una vecchia auto abbandonata. Naturalmente, le caratteristiche di questo luogo determinante nel racconto dell’avvenimento natalizio, si sono riflesse all’ambiente circostante. E così, come è accaduto in tutta la storia dell’arte dal Cristianesimo in poi, le scenografie hanno assunto intonazioni sempre meno medio-orientali, trasformandosi in universi ibridi con colonnati classici, casupole simili a vecchie cascine brianzole, torri medievali, moschee… Ogni epoca ha voluto lasciare un pezzo di sé nello spazio quasi esoterico del presepe, seguendo i moti della fantasia e dell’anima, prima di quelli della religione.
E poi la gente… Personaggi, tanti personaggi che si sono aggiunti agli unici considerati ufficiali: i pastori. Loro hanno avuto da sempre un ruolo definito, sono entrati a far parte del meccanismo narrativo e simbolico del presepe: gli altri sono apocrifi. Come personaggi di un ex-voto senza fine, ecco artigiani e principi, pescatori e venditori di ogni genere di mercanzia adagiati nel muschio e tra i sugheri che nella finzione della rappresentazione, dovrebbero essere montagne e rocce. Per molti di loro un micro-mondo indispensabile per dare senso al loro essere nella storia: piccole botteghe, banchi con verdure, pane, pesce, salumi e formaggi di ispirazione più padana che palestinese. Per essere più reali, possibili e forse senza tempo, questi micro-mondi sono stati vitalizzanti dalla dinamicità del movimento: mole e macine, magli e mulini mossi da motori nascosti e circuiti sempre più complicati, prima meccanici e poi via via consegnatisi al controllo del computer. Scrosci di acque vere, canalizzate e controllate da memorie remote, hanno sostituito specchi e carta stagnola con i quali si cercava di simulare la vita dell’acqua. Ma anche le persone, con i loro mille lavori mai citati da nessun vangelo e neppure immaginati dai Padri della Chiesa, hanno acquisito il dono quasi magico del movimento. Gesti semplici, sincopati, ripetitivi, automatici, con suoni semplici. Chi non ricorda il battere irrefrenabile del martellino del fabbro, o il cigolio della macina trainata da un asinello?
Luoghi, gesti, suoni per dare al presepe l’opportunità per essere nella storia, in quella di chi l’osserva e cerca di immaginarsi un itinerario da seguire con gli occhi e con la mente. Un viaggio per ritrovarsi e individuare elementi che possano legarci a quella sacra rappresentazione con un appena un canovaccio abbozzato, in cui tutti possono essere attori e spettatori.
Sarà anche per questa straordinaria capacità di essere racconto continuo, aperto e destinato a non farci sentire soli, che il presepe continua ad avere un valore tradizionale importante, abbattendo mode e falsi miti. Ognuno può dire e fare qualcosa: noi, da bambini, ci mettevano anche qualche soldatino, indiani e cow-boy: chissà, forse inconsciamente, eravamo già consapevoli dell’universalità rappresentata da quell’evento colmo sacro, ma anche di un po’ di gioco. L’aspetto ludico del presepe è un’altra storia: non ha niente da spartire con la tradizione e diventa materia per psicoanalisti & soci. A loro lasciamo il prestigio di individuare i motivi inconsci che possono indurre qualcuno a porre tra le statuine anche l’effigie dei nostri politici, dei cantanti e forse dei protagonisti del Grande fratello vip. Noi non vogliamo tanto, ci bastano quelle scenografie libere da ogni vincolo geografico e cronologico, i gesti di falegnami che aggrediscono il legno e l’interminabile ticchettio del piccolo martello sull’incudine. Con acque vere, ma anche la stagnola va bene…