E’ una ovvietà, ma vale la pena ribadirla fin dall’inizio. La Grande Guerra ha determinato una svolta epocale per l’Europa, che solo negli anni successivi scoprì di aver dato inizio con quel conflitto al suo lungo suicidio, terminato nel 1945. Un lungo suicidio che determinò un senso di lutto collettivo che esigeva una qualche forma nuova di riparazione.
A partire dalla fine del 1918 emerse quindi, in modi diversi nei vari paesi coinvolti, la necessità di una elaborazione nazionale del lutto. Niente poteva tornare automaticamente come prima. Parliamo di 16/ 17 milioni di morti in Europa in una guerra globale: una esperienza mai vissuta prima dal Vecchio continente. In Italia, per citare il nostro caso, si arriva a un milione 250.000 morti, divisi equamente tra militari e civili. Ai quali si devono aggiungere 600.000 morti tra il 1918 e il 1919 per l’epidemia della Spagnola. Insomma un lutto nazionale che l’Italia condivide con l’Europa e che porterà a risposte e sbocchi diversi nei Paesi coinvolti.
Già durante la guerra il massacro nelle trincee con il balletto delle avanzate e ritirate aveva sollevato in Europa le prime richieste di un omaggio particolare all’anonimo protagonista della guerra di massa, destinato a cadere quotidianamente con cadenza regolare e prevedibile, come lo scarto di una catena di produzione.
In Italia la proposta di un omaggio al soldato senza nome viene avanzata per la prima volta il 17 luglio del 1920 a Roma, durante l’assemblea della Associazione Garibaldi, reduci delle patrie battaglie, e dall’Unione Nazionale Ufficiali e Soldati (UNUS), che approva la proposta del Generale Douhet per la sepoltura al Pantheon di un combattente non identificato. Il generale illustra e motiva la sua proposta sul giornale dell’UNUS, “Il Dovere”, in un articolo del 24 agosto, che riprende anche i suoi contrasti di vecchia data con la classe politica e i vertici delle gerarchie militari.
“Tutto sopportò e vinse il nostro Soldato, scrive il generale. Dall’ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri…che cominciarono a meravigliarsi del suo valore…alla calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità…Perciò al Soldato bisogna conferire il sommo onore…Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio”. Il generale prefigura anche quella che sarà poi l’effettiva scenografia dell’avvenimento. “Tutti i cittadini debbono far ala alla via trionfale, unendosi in un unanime senso di elevazione ideale nel comune atto di reverenza verso il Figlio ed il Fratello, spentosi nella difesa della madre Comune”. Unanimità, reverenza, comunione ideale saranno poi i sentimenti delle centinaia di migliaia di persone che parteciperanno direttamente o indirettamente prima al viaggio verso la sua meta e poi all’inumazione del Milite Ignoto.
Il clima politico dei mesi successivi è a dir poco infuocato: scioperi, occupazione delle fabbriche, serrate delle industrie, fine dell’impresa fiumana, scontri continui tra militanti delle sinistre e fascisti. Il bilancio delle settimane che precedono le elezioni politiche del 15 maggio 1921 è di 105 morti e 432 feriti.
Il 21 luglio si verificano i fatti di Sarzana, dove 500 fascisti radunati per ottenere la liberazione di una decina di camerati arrestati vengono respinti dalla popolazione sostenuta dai carabinieri, subendo numerose perdite. Il 2 agosto viene concluso un patto di pacificazione tra fascisti e socialisti, che naufragherà poco più avanti, ma che è comunque significativo del bisogno di un momento di tregua: un bisogno che troverà la sua consacrazione, sia pure breve ed effimera, nei pochi giorni della traslazione e della inumazione del soldato senza nome. Una tregua d’armi sul modello di quanto avveniva nella litigiosissima Grecia antica in occasione dello svolgimento dei Giochi Olimpici, sacri agli Dei.
Il progetto di legge per l’inumazione del Milite Ignoto viene presentato alla Camera il 20 giugno del 1921 dal ministro della guerra Giulio Rodinò con le firme del Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, e del ministro del Tesoro Ivanoe Bonomi. E’ uno degli ultimi atti del 5° e ultimo governo Giolitti, che una settimana dopo presenterà le dimissioni per essere sostituito dal governo Bonomi (e qui non entro ovviamente nella dinamica che le determina e nelle motivazioni della soluzione della crisi). Il 28 giugno il progetto approda alla Camera, relatore Cesare Maria De Vecchi che, su sollecitazione della Commissione Esercito e Marina, indica il Vittoriano come destinazione del soldato senza nome. Un monumento destinato a diventare così effettivamente l’Altare della Patria, un simbolo sacro per tutta la Nazione. La data per la cerimonia finale è fissata per il 4 novembre, giorno della fine delle ostilità sul fronte italiano.
Il 4 agosto il progetto di legge viene approvato dalla Camera, il 6 agosto dal Senato e l’11 riceve la firma di Vittorio Emanuele III, che ha sempre appoggiato l’iniziativa fin dal momento in cui ha preso forma. Il 28 ottobre viene approvato il decreto che dichiara festiva la data del 4 novembre, dedicata alla celebrazione delle onoranze al Milite Ignoto, festa che diventerà poi la giornata della Vittoria.
Quello che segue è un lungo percorso celebrativo, largamente noto (almeno una volta) che vede coinvolto l’intero Paese. Il prologo è la costituzione di una commissione composta da sei militari (dal generale al soldato), tutti decorati, che in segreto dai primi d’ottobre procede alla ricerca nei cimiteri di guerra dei vari fronti delle salme senza alcuna possibilità di identificazione. Prima concentrate a Udine, poi a Gorizia e infine a Aquileia, dove il 27 ottobre le undici salme vengono allineate in urne identiche nella Basilica presso la quale avverrà la cerimonia della scelta.
Anche l’individuazione della persona preposta alla scelta è a suo modo emblematica. E’ Maria Maddalena (un nome non casuale) Blasizza Bergamàs, madre di Antonio Bergamàs un giovane maestro ebreo triestino, quindi originario delle terre ‘redente’, che, dopo il richiamo alle armi nell’esercito austro-ungarico, aveva disertato per raggiungere nel giugno del 1915 il fronte italiano, dove era caduto un anno dopo senza che la sua salma venisse mai trovata e identificata.
La cerimonia della scelta avviene il 28 nella Basilica di Aquileia in un’atmosfera altamente drammatica. Maria Maddalena Blasizza Bergamàs avvolta in un velo nero procede lentamente tra le undici urne fino a quando l’emozione prende il sopravvento e quasi si accascia su una di esse dove lascia il velo, senza depositare il fiore bianco previsto dal programma della cerimonia. La scelta è fatta. Le altre dieci bare verranno sepolte nel cimitero della Basilica e l’undicesima, quella prescelta, prenderà la strada di Roma lungo un percorso che si configurerà come una infinita cerimonia sacra collettiva.
Il 29 ottobre alle ore 8 il treno con la salma prescelta, guidato da ferrovieri anch’essi decorati al valore, inizia il suo lungo, ma soprattutto lentissimo percorso, passando per Venezia, Bologna e Firenze, verso la capitale, dove giungerà la mattina del 2 novembre alle ore 9. Quattro giorni quindi per complessive 96 ore e poco più di 600 Km, a una velocità media inferiore ai 6 km all’ora, se si tiene conto delle venti fermate di alcuni minuti nelle stazioni principali. Quindi un viaggio a passo d’uomo, come è uso nelle processioni.
All’arrivo, la salma è accolta dal Re, accompagnato dalle principali autorità, per venire trasportata poi a S. Maria degli Angeli per le esequie solenni e l’esposizione alla cittadinanza sino al tramonto del giorno successivo. La mattina del 4, attraverso via Nazionale, il corteo con l’urna raggiunge piazza Venezia dove, oltre all’immensa folla, l’attendono le diecimila bandiere dei combattenti, la famiglia Reale al completo e tutte le maggiori autorità politiche.
Si attendono le dieci, l’ora prevista in cui le campane di tutte le Chiese di Roma cominceranno a suonare e ad esse si uniranno le campane di tutte le Chiese d’Italia. Ad esse si unisce anche il suono cupo di 50 tamburi con i cordoni allentati, che rullano ritmicamente ai piedi dell’Altare della Patria, seguendo una idea di Vittorio Emanuele III, che ha voluto riproporre per l’occasione una antica usanza delle esequie dei principi sabaudi.
A un segnale, la bara, sorretta da dodici decorati con medaglia d’oro, viene portata sull’Altare mentre le bandiere s’inchinano al passaggio. Infine, dopo che il sovrano ha deposto sulla cassa la medaglia d’oro che egli stesso ha conferito all’Ignoto con decreto del 1° novembre, l’urna viene deposta nella tomba, mentre analoghe cerimonie funebri si svolgono in tutta Italia. Il pellegrinaggio al Vittoriano continuerà poi per tutto il pomeriggio fino a sera tarda.
Il Re che presiede a questa toccante cerimonia si presenta, per l’occasione, come una sorta di Sommo sacerdote di un rito laico collettivo; in quei momenti non è tanto, o almeno non solo, il sovrano erede di una dinastia da poco assurta alla guida di un Paese finalmente unito che compie un dovere istituzionale; è piuttosto il Re di Vittorio Veneto, il Re soldato che celebra il funerale di un commilitone, diventando in quel momento simbolo e tramite della volontà e del cordoglio dell’intera Nazione.
Questa la cronaca. Ma l’eccezionalità dell’avvenimento va cercata soprattutto nel percorso con cui si è arrivati a quella conclusione. E’ l’interminabile processione di popolo che ha accompagnato il viaggio del Milite che costituisce la vera sorpresa anche per gli stessi organizzatori. Sono le centinaia di migliaia di uomini e donne (queste in particolare) che si sono affollati e inginocchiati di giorno e di notte in rigoroso silenzio lungo le rotaie dove transitava il treno sacro che hanno rappresentato la vera novità di quella cerimonia infinita.
L’Italia del dopoguerra aveva conosciuto momenti di forte rifiuto del conflitto, in particolare da parte delle sinistre, che si erano espressi nella contestazione, anche violenta, dei reduci in divisa. Una ferita, come sappiamo, destinata a determinare conseguenze politiche gravissime.
Ma in quei giorni del viaggio verso Roma il clima è completamente diverso. Anche le sinistre, socialisti, comunisti e anarchici, che avevano inizialmente contestato l’iniziativa, scelgono poi di portare il loro omaggio all’Ignoto, sia pure separatamente dall’ufficialità. Non è l’omaggio al Milite, ma al compagno proletario morto nell’inutile massacro. Una distinzione in puro politichese che non lascia grande traccia nei militanti.
Il popolo invece non ha ripensamenti e non fa distinzioni. Ha già scelto senza bisogno di mediazioni. Riconosce nell’Ignoto un fratello, un figlio, un padre, un marito che non è tornato. Nella folla assiepata lungo il percorso spicca il nero delle donne tutte rigorosamente in lutto, ma si notano anche le bandiere delle leghe operaie e contadine, delle confraternite e dei sindacati, affiancate ai tricolori nazionali.
Il silenzio è assordante, rotto soltanto dall’avanzare del treno sulle rotaie. Ma non è il silenzio prescritto dal protocollo per paura di contestazioni; è un silenzio più profondo, che viene dalla partecipazione corale, individuale e collettiva insieme, a un dolore che forse per la prima (e in un certo senso ultima) volta tutta la Nazione riconosce come interamente suo. L’elaborazione del lutto, per usare una espressione ormai classica, è appena cominciata e trova nel viaggio del Milite Ignoto il suo momento fondativo.
Negli anni seguenti verranno inaugurati in quasi tutti i paesi d’Italia monumenti ai caduti con i nomi delle vittime. Si celebreranno innumerevoli cerimonie del ricordo il 4 novembre e infiniti scritti e poesie verranno dedicati all’esperienza gloriosa e tragica della Grande guerra. Il dolore per la perdita di una intera generazione continuerà a essere profondo negli anni successivi, almeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, ma in forme ridotte anche oltre. E tuttavia assumerà prevalentemente una dimensione locale, mentre non si ricreerà più quella unione quasi mistica che conobbe il Paese nella settimana del viaggio dell’Ignoto fino alla sua inumazione, una unione destinata a frantumarsi negli scontri politici dei mesi seguenti.
Dopo la Seconda guerra mondiale, in cui mancò l’entusiasmo patriottico che aveva caratterizzato la partecipazione alla Grande guerra, non si determinò mai nulla di simile e il dolore per le perdite e la memoria del lutto, anche per la tragedia della guerra civile che insanguinò l’Italia tra il 1943 e il 1945 e oltre, non assunsero mai quella dimensione collettiva e di partecipazione unanime che aveva caratterizzato il primo dopoguerra. Per questi motivi la settimana dal 29 ottobre al 4 novembre del 1921 rappresenta qualcosa di unico e irripetibile nella nostra storia unitaria, qualcosa che vale la pena di ricordare e tramandare a quanti, tra noi e nelle generazioni future, hanno, o avranno, voglia e sensibilità per intendere il valore di quell’evento.
In conclusione, il Milite Ignoto meriterebbe di essere associato con un ruolo di protagonista, il 4 novembre, alla festa delle Forze Armate, che si celebra ormai tradizionalmente in tono minore. Il soldato senza nome, morto per la Patria, al di fuori di schieramenti e divisioni di parte, potrebbe rappresentare davvero ancora oggi il morto che tutti possono onorare con una memoria almeno per una volta effettivamente condivisa. Un auspicio, o forse un sogno, ma sognare non costa nulla.