Dopo l’armistizio, e la frattura politica che spezzò in due l’Italia – al Sud, un governo monarchico, cobelligerante con gli Alleati; al Nord, un restaurato regime fascista, in forma repubblicana e presieduto da Mussolini, rimesso in sella dagli alleati germanici per ferma volontà di Hitler – agli inglesi toccò decidere che posizione assumere nei confronti della Resistenza che cominciò ad agire nell’Italia cosiddetta occupata.
di Roberto Festorazzi da del 27/04/2017
Va detto che i britannici mantennero una linea ben definita nei confronti del movimento partigiano, dalla quale non derogarono mai. All’inizio si mostrarono scettici circa l’effettiva consistenza del fenomeno resistenziale, che sottovalutarono non poco e a lungo. Poi, quando dovettero prendere atto dell’esistenza di un fronte di liberazione ben strutturato anche militarmente, impararono a fare i conti con esso, cercando di influire sul suo sviluppo.
I britannici si mossero entro due limiti ben precisi. Da un lato, il loro appoggio alla Resistenza non fu mai totale ed incondizionato, tanto è vero che mancarono di sostenere, in quanto tale, l’esercito resistenziale di massa che il Partito comunista ebbe a costituire con la grande organizzazione che furono le Brigate Garibaldi.
Dall’altro lato, tuttavia, il Soe si mosse nel solco di un opportunismo bellico, aiutando quelle formazioni che venivano considerate efficaci dal punto di vista operativo e in grado di concorrere al successo della strategia militare alleata. Da questo punto di vista, i documenti emersi di recente dagli archivi nazionali di Londra, hanno permesso di smentire la leggenda storica affermatasi in letteratura: e cioè che gli inglesi privilegiassero i rapporti con le forze partigiane moderate, ai danni di quelle comuniste.
In realtà, ciò che le carte dimostrano è un’assenza di discriminazioni politiche, ad esempio nel direzionare gli aviolanci di materiali verso questa o quella sigla resistenziale. Furono invece seguiti, nella scelta dei destinatari degli aiuti, criteri di mera efficacia strumentale.
Stupisce, invece, la sottostima, da parte del Soe, del peso quantitativo dei comunisti nella Resistenza. Essi ritenevano che la loro presenza non superasse il 20%, sul totale delle forze in campo e che, anche all’interno delle Brigate Garibaldi, i comunisti costituissero una minoranza non superiore al 20-30 per cento. Si tratta di cifre del tutto campate in aria in quanto, i comunisti, nel movimento di Liberazione, non soltanto erano largamente maggioritari, ma disponevano del pieno controllo delle Brigate Garibaldi: attraverso i comandanti militari, ma anche e soprattutto mediante la figura del commissario politico che costituiva la cinghia di trasmissione della volontà del partito.
È ben vero che nelle formazioni garibaldine esisteva un’aliquota di combattenti non ideologizzati, che si possono definire apartitici, i quali assurgevano anche a ruoli di comando: ma essi erano comunque subordinati in via gerarchica ai vertici superiori, ed erano indirizzati verso gli obiettivi desiderati attraverso le funzioni ispettive svolte dai comandi regionali. (…)
Quanto ai rapporti con i partiti politici, il Soe, come si è anticipato, cercò di instaurare rapporti preferenziali con gli azionisti, pur adoperandosi per evitare che questa collaborazione organica e opportunistica assumesse i connotati di una scelta partitica definitiva ed esclusiva. Il Partito d’azione, forza di opinione laica e liberalprogressista, a radicamento urbano, doveva anzitutto servire a drenare i consensi diretti verso sinistra, soprattutto verso il Pci.
In un documento redatto il 28 ottobre 1943, il responsabile della Sezione italiana del Soe, Cecil Roseberry, osservava: «Stiamo strumentalmente stimolando la crescita e l’attività del Partito d’azione, un movimento che cerca di centralizzare le attività di tutti i gruppi liberali e moderati e di raggiungere un accordo con i comunisti. I socialisti e i liberali insieme con un’aristocrazia anglofila sono i principali costituenti di questo partito».
Uomini come Leo Valiani, e Max Salvadori, furono decisivi ai fini di questo utilizzo strumentale dell’azionismo, veicolando fin dentro i delicati equilibri interforze del Clnai le direttive di Londra. La strategia del Soe fu chiara, dal punto di vista degli obiettivi preferenziali: bisognava evitare che la posizione dei socialisti si saldasse con quella dei comunisti, sia in seno alla Resistenza sia nel governo del Regno Sud, dopo che, nell’aprile del 1944, i partiti fecero il loro ingresso nel secondo governo Badoglio. La svolta di Salerno enunciata da Palmiro Togliatti, subito dopo il suo rientro in Italia dall’Unione Sovietica, era giudicata con molta preoccupazione dagli angloamericani. Con essa, il Pci aveva scavalcato a destra azionisti e socialisti, fautori della pregiudiziale antimonarchica che aveva impedito loro di collaborare con l’esecutivo badogliano. Facendo cadere tale pregiudiziale, e rinviando al dopoguerra la scelta della forma istituzionale dell’Italia democratica, Togliatti aveva spiazzato tutti quanti. Gli inglesi, allarmati, temevano il formarsi di un solido blocco compromissorio tra comunisti e monarchici, tale da isolare tutte le altre posizioni politiche. Per tale ragione, il Soe cercò di favorire gli esponenti socialisti che desiderassero guadagnare spazi di autonomia dai comunisti, e vide di buon occhio la formazione di intese dentro il blocco moderato.