di Pierluigi Vercesi / Corriere della Sera – da Dagospia del 10 maggio 2022
Da Mussolini a Togliatti, il passo non fu né breve né indolore per gli intellettuali italiani, come vorrebbe invece un radicato luogo comune. I voltagabbana sono una componente non minoritaria nella storia politico-culturale del nostro Paese, ma ciò che accadde in quei drammatici anni della storia italiana, dalla caduta del fascismo alla sconfitta elettorale delle sinistre, va rivisto sotto una diversa prospettiva. A sparigliare le carte ci ha provato, riuscendovi, Alessandro Masi, storico dell’arte e segretario generale della Società Dante Alighieri, nel suo ultimo libro Idealismo e opportunismo della cultura italiana 1943-1948 (Mursia), con prefazione di Andrea Riccardi.
L’imponente massa di documenti su cui riflettere mostra come la «meglio gioventù» dell’intellighenzia italiana, formatasi ai tempi del motto fascista «libro e moschetto», si sia battuta alla ricerca di una verità e del modo in cui rappresentarla, orientandosi in tempi mistificati dalle ideologie e da una devastante guerra. I Moloch politici con cui si confrontarono cercarono di blandirli e manipolarli, per poi colpevolizzarli quando non addirittura annientarli non appena le loro idee deragliarono dalle rispettive necessità totalitarie.
Accadde con Benito Mussolini e non fu diverso con Palmiro Togliatti. Il primo, a differenza del secondo, si poteva avvalere del confino, della galera, delle esecuzioni.
Il fascismo costruì il proprio potere anche con l’aiuto di scrittori, artisti, architetti, filosofi. Dopo la creazione dell’ impero e ormai supino alla Germania, però, Mussolini liquidò le critiche provenienti dal milieu intellettuale con una delle sue frasi perentorie: «Inutile perdere tempo con loro, non son fatti per i colpi di cannone!».
Solo Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, comprese la necessità di andare oltre alle involuzioni del capo e chiamò a raccolta, attorno alla rivista «Primato», artisti e scrittori già in odore di fronda, da Guttuso a Vittorini, da Argan a Longhi, da Pratolini a Lajolo, immaginando la sopravvivenza di un fascismo oltre il fascismo.
Quella fiumana di intellettuali di lì a poco avrebbe preso la strada della clandestinità, riemergendo, per la gran parte, al fianco dell’ uomo, giunto da Mosca in Italia nel 1944, che proponeva, per intellettuali e artisti, un ruolo democratico al fianco delle masse.
La gran parte di loro aderì al Partito comunista sulla base di queste premesse, senza avere prima letto una sola riga di Marx, Lenin o Stalin, né le teorie sull’ arte comunista elaborate da Andrej Zdanov. Togliatti, dalla «svolta di Salerno» e fino ai primissimi anni della Repubblica, adombrò un comunismo cucito su misura per i bisogni italiani. Anche per quelli degli artisti.
Era bonario, colto, paternalistico. Fino a quando su «Rinascita» non mostrò gli artigli: era sua intenzione acquisire un’egemonia del partito sulla funzione degli intellettuali. Cominciarono, così, a cadere le teste, in senso metaforico ovviamente. Prima, la lenta e implacabile agonia della rivista «Il Politecnico» di Elio Vittorini, reo, tra l’ altro, di non aver narrato, nel romanzo Uomini e no, la Resistenza secondo i parametri della nuova ortodossia comunista (ci passò anche Italo Calvino con Il sentiero dei nidi di ragno).
Vittorini si ostinava nel raccontare il popolo italiano come un «mondo offeso», ma non era più tempo: ora doveva essere rappresentato con la gioia in volto perché marciava compatto verso il comunismo.
Togliatti, all’ inizio, si limitò a bacchettate sulle nocche delle dita l’ autodidatta siciliano, ma quando comprese che Vittorini non intendeva «suonare il piffero dalla rivoluzione» e, anzi, azzardava, sul «Politecnico», che «il diritto di parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità. Deriva piuttosto dal fatto che si cerca la verità», tolse la spina e Vittorini divenne «un morto che parla».
Ancora più violenta fu l’invettiva contro gli artisti comunisti e antifascisti che esposero all’ Alleanza della cultura a Bologna nell’ autunno del 1948. Togliatti sentenziò: «Orrori e scemenze».
Davanti alla lettera in cui gli artisti cercarono docilmente di giustificarsi e spiegarsi, il segretario del Pci non arretrò di un passo, mortificando il «compagno» Emilio Vedova con la pubblicazione di un suo quadro stampato al contrario. Era, quello, il Quarantotto di Togliatti: tra la dura batosta elettorale e l’ attentato subìto, non era certo nelle condizioni migliori per affrontare anche le provocazioni di artisti e scrittori.