Nel 1861, dopo la resa della piazzaforte borbonica di Gaeta, i soldati sabaudi si sarebbero resi protagonisti di una fucilazione di massa che portò il conto delle vittime dell’assedio a 5.000 morti. In particolare 2.000 di queste vittime, militari e civili, sarebbero state sepolte in una fossa comune ritrovata negli anni ’60. Una storia che inizia a essere riproposta con sempre più frequenza in occasione del 13 febbraio, la “giornata della memoria per i popoli delle Due Sicilie”. Andiamo ad analizzare i fatti e la bigliografia intorno alle fucilazioni di massa di Gaeta, diventante un nuovo mito neoborbonico.
Giornata della memoria per i popoli delle Due Sicilie
Il 13 febbraio ricorrerebbe la “Giornata della memoria per i popoli delle due Sicilie”. L’origine di tale ricorrenza si può far risalire al 2014, anche se inizialmente era collocata al 17 marzo (vedi comunicato stampa del “Parlamento delle Due Sicilie – Parlamento del Sud (marchio registrato)”). Data scelta in chiara contrapposizione alla proclamazione del Regno d’Italia d’ascendenza sabauda e piemontese. Tale prima iniziativa, organizzata nell’ex capitale del Regno, Napoli, è stata traslata nel tempo e nello spazio, finendo per essere spostata al 13 febbraio con località simbolo delle commemorazioni Gaeta. A Gaeta infatti già da tempo si commemorava la caduta della fortezza simbolo della “resistenza” del Regno duosiciliano: la fortezza si arrese il 13 febbraio 1861. Anche se non fu l’ultima piazzaforte a cadere, venendo superata nel tempo da Messina (12 marzo 1861), e soprattutto, da Civitella del Tronto che resistette fino al 20 marzo 1861, ovvero a Regno d’Italia proclamato da 3 giorni. A posteriori, gli ultimi giapponesi della Lost cause duosiciliana.
Si può considerare tale ricorrenza ufficializzata sin dal 2017, quando viene creato la “community” Facebook “13 Febbraio: Giorno Della Memoria Per Il Popolo delle Due Sicilie” da parte del sito neoborbonici.it
Vicinanze maliziose…
Certo, qualcuno potrebbe obiettare, maliziosamente, che la traslazione dal 17 marzo al 13 febbraio possa essere un facile aggancio al 10 febbraio. Ovvero al Giorno del Ricordo, in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Data già compromessa (la scelta del 10 febbraio è per la firma del Trattato di Parigi, che sancendo i nuovi confini sancisce anche il punto di non-ritorno dell’esodo) per essere troppo vicina al 27 gennaio. Ovvero il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale per le vittime dell’Olocausto che rimanda alla liberazione del Campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata rossa. Si segnala inoltre che il 19 febbraio, anniversario della strage di Addis Abeba, l’indiscriminata rappresaglia seguita all’attentato subito da Graziani il 19 febbraio 1937, ricorre la giornata delle “vittime del colonialismo italiano”. Il periodo tra gennaio e febbraio sembra quindi la stagione ideale per rivitalizzare la memoria storica. Non ultima la decisione di istituire il 26 gennaio la Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini.
Ma da un punto di vista duosiciliano la data del 13 febbraio è del tutto ragionevole, in quanto corrisponde alla resa della fortezza in cui si erano rifugiati i regnanti. Le altre date “utili” potevano essere i plebisciti del 21 ottobre 1860, formalizzati il 17 dicembre successivo (plebisciti non riconosciuti dai simpatizzanti duosiciliani). O in alternativa come fa Wikipedia che opta per il 21 febbraio, data del progetto di legge di Cavour per la proclamazione del Regno d’Italia. Pure ci sarebbe stato il 20 marzo, con la resa di Civitella del Tronto, l’ultima piazzaforte.
L’epopea di Civitella
Ancorché fronte secondario del conflitto, la resa della poderosa fortezza che delimitava il confine settentrionale del Regno delle Due sicilie nell’Adriatico al confine con lo Stato della Chiesa, avvenuta solo a Regno d’Italia proclamato, poteva rappresentare quell’aura di “reparto invitto” che manca al mito della Lost cause duosiciliana (un mito che si rispetti, come dimostra la Lost cause confederata, ha bisogno di sconfitti vincenti almeno in qualche occasione).
Anche perché a leggere storiografia filo-borbonica i resistenti di Civitella finirono a Fenestrelle e quindi il cerchio vittimista neoboronico si chiuderebbe in un cortocircuito ideale della “sete di sangue sabauda”.
Il 13 febbraio e le fucilazioni di massa di Gaeta
Insomma, al netto delle vicinanze il 13 febbraio è una data più che razionale (anche se avremmo preferito l’afflato eroico del 20 marzo). Pure gli storici maliziosi, una volta acclarato che la data è coerente, potrebbero affermare: «Cos’è un giorno del ricordo senza un’orgia di violenza, un omicidio di massa. Magari persino un “infoibamento”?».
E così dal 2017 giorno che ufficiosamente il vostro storico cronista sancisce come data d’inizio del Giorno della Memoria duosiciliano in ricordo delle “vittime meridionali dell’unità italiana” (a cui aggiungere a piacere “guerra senza dichiarazione di guerra/guerra mai dichiarata/guerra neocoloniale”), ha iniziato a diffondersi una storia con tutti i crismi per giustificare un “giorno della memoria” con tutti gli effetti, quella della “fossa comune di Gaeta” (c’è anche una versione in cui si parla di infoibamento).
Storia granguignolesca in cui persino il sangue delle fucilazioni di massa sembra scorrere quasi fluido a distanza di un secolo. E storia granguignolesca che porterebbe anche la firma di autore prestigioso.
Evento storico eccezionale che parrebbe aver avuto meno copertura di Fenestrelle, e del “genocidio meridionale”. Nonostante la vicinanza dei fatti molti più vicina a noi.
Questione di metodo
Va premesso che i metodi del debuking e del fact checking non ci interessano. Perché è irrilevante trovare il “fattoide y che smentisce il fattoide x“. Quello porta solo a smentite/riprese concatenate che non chiariscono né il fatto né il metodo, né, soprattutto, il contesto. Quello che dovrebbe interessare allo storico cronista è sia il fatto in sé che la propagazione dello stesso (vedi la questione di Churchill e i leoni della folgore, o la fola della “Strega di Hitler”). E la sua indagine/ricordo/memoria a posteriori. Ovvero qualunque fact checker è in grado di smentire bufale e notizie non confermate. Lo storico dovrebbe saper dire (o almeno ipotizzare) come, quando, e perché la bufala è nata. E come si è propagata. E se la bufala, o meglio la fola, come le leggende, nasca da una particella subatomica di verità (o almeno da un evento “non approfondito”). Fatta questa doverosa premessa arriveremo alla facile (e duplice) conclusione che:
- La fossa comune di Gaeta così come raccontata è una fola senza né capo ne coda;
- La fossa comune di Gaeta, al netto di come viene raccontata (la fantasia neoborbonica), avrebbe un fondo di verità che non ne giustifica la narrazione ex-post, ma che rappresenta allo stesso modo un’occasione perduta della storiografia/cronaca, nonché di un assoluto fallimento della memoria locale.
Contesto: l’assedio di Gaeta
Dopo la sconfitta nella battaglia del Volturno, il 1° ottobre 1860 le truppe duosiciliane ripiegarono su Gaeta. Inizialmente le truppe non si rinchiusero all’interno della piazzaforte, ma si disposero anche al di fuori della fortezza, sull’istmo che la unisce alla terraferma. Solo a partire dal 13 novembre a parte qualche sortita, le truppe rimasero nella fortezza. A dicembre scoppiò un’epidemia di tifo, ma il grosso delle vittime avvenne nell’ultima parte dell’assedio, dopo che il comandante della piazzaforte aveva respinto le proposte di resa del 25 dicembre e del 20 gennaio. Negli ultimi giorni d’assedio, prima della resa del 13, gli assedianti, i piemontesi comandati da Cialdini (sì quello di Pontelandolfo e del presunto eccidio), colpirono diverse polveriere delle batterie dalla fortezza.
- 4 febbraio 1861, polveriera batteria Cappelletti con 180 kg di polvere da sparo;
- 5 febbraio 1861, magazzino polveri batteria Sant’Antonio, 7 tonnellate di polvere da sparo; 316 vittime tra i soldati e un centinaio tra i civili;
- 11 febbraio 1861, colpite le polveriere batterie Transilvania e Philipstad;
Le cifre “ufficiali” parlano di 826 morti tra le forze duosiciliane, 200 dispersi e almeno un centinaio vittime tra i civili. Insomma i morti non mancarono, così come inevitabilmente non mancò la necessità di fosse comuni.
Guerri e il saggio-pamphlet di Ciano
E i duemila scheletri di cui parla il post del giorno del ricordo duosiciliano? Sì la citazione è dal volume di Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud: antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, 2010. Ma in realtà si tratta di un virgolettato di un altro volume, il “saggio-pamphlet” (per usare le stesse parole di Guerri1) di Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del sud che ha avuto negli anni tre distinte edizioni (Grandmelò, Roma, 1996; Magenes, 2011; Ali ribelli, 2019; Quest’ultima con prefazione di Pino Aprile e Luciano Barone).
Ciano, come ricorda lo stesso Guerri, è anche fondatore nel 2007 del Partito del Sud, che pone fin dal programma consultabile sul suo sito: «tutte le iniziative utili a fare luce sulla verità storica degli eventi e delle condizioni socio economiche riguardanti i territori del Sud Italia, anche antecedenti al 1861.»
Nell’introdurre il passaggio sulle fucilazioni di Gaeta preso da Ciano, si limita a formulare un cappello introduttivo senza fornire ulteriori dettagli: «A Gaeta, si continuò a fucilare. Uno scherzo macabro della storia volle che nel 1961, per i festeggiamenti del centernario dell’Unità d’Italia, nella città si costruisse il quartiere delle scuole, in via Napoli, dove i bambini giocano ancora a “briganti e piemontesi”. Racconta Antonio Ciano:»
Insomma si cita Ciano e il drammatico resoconto della scoperta della fossa comune, particolari granguinoleschi e poco credibili (il terreno impregnato di sangue cento anni dopo) inclusi. Il libro di Ciano e i fatti di Gaeta così come raccontati sono ripresi nel 2011 nel volume di Gigi Di Fiore Controstoria dell’Unità d’Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli. Di Fiore cita Ciano, ma a differenza di Guerri, evita i virgolettati e non indulge nei particolari, limitandosi alle “cifre ufficiali”, ovvero 895 morti tra militari e civili e 200 dispersi.
Ben lontano dalla cifre proposte dallo stesso Ciano, che in un post sul blog di Beppe Grillo nel 2006, dove per Gaeta parla di 5.000 morti complessivi (di cui i 2.000 della fossa comune). Tra l’altro visto che la resa di Gaeta si inquadra anche nella vicenda di Fenestrelle, la “fortezza lager” dove secondo i neoborbonici sarebbero morti migliaia di prigionieri. Vicenda di cui è tornata a occuparsi Storia in Rete del marzo 2022.
Insomma al di là della vicenda già ampiamente dibattuta di Fenestrelle sarebbe il caso di domandarsi se tutti i crimini di guerra ascritti all’esercito sabaudo sarebbero compatibili con gli effettivi dell’armata duo siciliana, e quante volte il singolo milite sia stato fucilato dopo la resa/morto di stenti a Fenestrelle per arrivare a certi numeri.
Briganti pop a metà anni ’90
Ad affermazioni eccezionali si richiedono riscontri di un certo rilievo. Ma dell’esumazione di massa di 2.000 scheletri nel 1960/1961 non ci sono riscontri, né a livello di cronaca nazionale, né a livello bibliografico. E la storia della fucilazione di massa di Gaeta inizia a comparire proprio nella seconda metà degli anni ’902, quando il fenomeno del brigantaggio da argomento storiografico di nicchia inizia a diventare sempre più popolare. Dopo una prima fase tra gli anni ’70 e gli anni ’80 in cui la rilettura critica del fenomeno del brigantaggio è limitata al mondo accademico con una forta caratterizzazione politica, negli anni ’90 nasce quella lettura romantica del brigantaggio come fenomeno di resistenza antisabauda che poi getterà le basi delle letture storiche che ricadono nella definizione di Neoborbonismo. Basti pensare come nel 1993 venisse presentato Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il film Briganti – Amore e libertà, film di Marco Modugno (figlio di Domenico) con sceneggiatura dello stesso regista e Furio Scarpelli, e per protagonisti attori molto in voga nel periodo: Claudio Amendola, Monica Bellucci e Ricky Memphis (l’anno successivo ci sarebbe stato il grande successo de I mitici – Colpo gobbo a Milano). Film forse troppo in anticipo sui tempi non venendo mai distribuito al cinema e rimanendo una rarità televisiva.
Altre fonti per Gaeta
Se i fatti di Gaeta fossero assodati, proprio per la loro eccezionalità, se ne dovrebbe almeno trovare traccia in altri volumi coevi di quella prima fase di divulgazione storica critica della “classica” storiografia risorgimentale. E una traccia indipendente da quella che è la prima e più famosa “versione”. Ma in realtà a raccontarla come Ciano è solo lo stesso Ciano. Ci sono altri due autori fanno riferimento alla fosse comune di Gaeta in maniera autonoma. Il primo è Antonio Pagano, nel suo volume del 2002 Due Sicilie: 1830-1880, per i tipi di Capone, Lecce, 2002. In cui a pagina 275: «I morti nella difesa di Gaeta erano stati infoibati in una grande fossa comune alle pendici del Monte Orlando e sopra di essa c’è attualmente un grande garage per autobus.»
Ovvero non i lavori della scuola Carducci, e in particolare quelli per la palestra, bensì un garage, o più probabilmente un parcheggio, proprio quello che sorge di fronte alla scuola Carducci in questione. Parcheggio realizzato dove arrivavano i bastioni delle batterie della fortezza. Apparentemente solo un “dall’altro lato della strada”, ma che nel contesto dell’assedio, come vedremo, cambia completamente il contesto della “fossa comune”.
Il pozzo di Martummé
Due anni dopo è il turno di Antonio La Rosa, che in questo articolo pubblicato del 2004 fa riferimento a più fosse comune e un pozzo, cavità naturale, usato come sepoltura (l'”infoibamento” di cui parla Pagano?). Stavolta le fosse comune sono scoperte negli anni ’70 per lavori stradali. Resoconto solo apparentemente più equilibrato, in quanto si insiste sulla fucilazione di massa dopo la resa. Si legge sul sito: «A Civitella la citta’ fu saccheggiata. Alcune donne, cui furono strappate pubblicamente le vesti, furono violentate: chi si opponeva veniva fucilato e i corpi dei civili furono lasciati nel piazzaletto del belvedere insepolti.
Quei corpi e quelli di molti soldati saranno di nascosto sepolti, non si sa dove, dai briganti, durante la notte. Fosse con scheletri sono stati trovati negli anni ’70 durante lavori stradali. Tra i civili fu ucciso anche un frate. I soldati, tranne una parte che fu deportata, furono fucilati sul posto. Durante recenti lavori di restauro, sotto una pietra, sono stati trovati i cadaveri di due ufficiali vestiti in grande uniforme, sotto il pavimento della chiesa della fortezza sono state travate ossa umane in quantità. Ancora oggi non sappiamo cosa sia successo nella fortezza dopo che si arrese. Sorte analoga avranno Gaeta e Messina. Nota è la fossa comune, detta pozzo di Martummè a Gaeta, in cui furono gettati i corpi di un gran numero di sodati che si erano arresi».
Curiosamente la più recente monografia sull’assedio di Gaeta, Gli ultimi giorni di Gaeta, di Gigi Di Fiore, Rizzoli, 2010, non si occupa della questione delle fucilazioni a fine assedio. Pur mettendo i volumi di Ciano nella bibliografia di fine volume.
I morti di Gaeta
Ricapitolando le fucilazioni di massa di Geata sono proposte in maniera autonoma da soli tre autori. Due, Ciano e La Rosa, sostengono le fucilazioni più o meno in massa. Per uno la fossa comune è dov’è la palestra della Carducci. Per Pagano e La Rosa si parla più o meno esplicitamente del Monte Orlando. Anche se La Rosa non esclude altre fosse. Come detto gli ultimi dieci giorni d’assedio furono una carneficina. Ed evidentemente nella zona di Monte Orlando, all’interno delle fortificazioni furono approntate fosse comuni.
Quelle che sarebbero riemerse con i lavori degli anni ’70. Mentre la fossa comune di Ciano? Questa si sarebbe trovata in posizione esterna ai bastioni della fortezza, sebbene a ridosso degli stessi. E quindi creata dopo l’assedio. Ovvero a dar ragione all’affermazione di Ciano e La Rosa di fucilazioni in massa tra gli oltre 11 mila soldati duosiciliani superstiti rimasti nella piazzaforte dopo la resa. E considerando la “solita questione” dei censimenti pre e post unitari di cui Storia in Rete si è già occupata. Secondo questa tesi, i diversi numeri dei due censimenti dimostrerebbero la scomparsa di 3.000 persone. Ecco arrivati ai 5.000 citati in alcune occasioni.
Una fucilazione nascosta con un monumento in bella vista
Ma è lo stesso Ciano a fornire un altro dettaglio che smentisce la sua ricostruzione. Sul luogo della palestra della scuola Carducci, dove ci sarebbe stata la fossa comune con le 2.000 vittime c’era un monumento commemorativo! Scrive Ciano: «un monumento a forma tronco-piramidale, alto due metri e cinquanta, alla cui sommità vi era una croce di ferro alta un metro. La piramide era stata costruita con pietra bianca locale levigata…e ricordava al mondo le fucilazioni colà eseguite dai piemontesi nei confronti dei partigiani meridionali, quasi tutti contadini ed operai che difendevano le loro terre e le loro fabbriche…in quel periodo erano in corso i preparativi del centenario dell’unità d’Italia ed i festeggiamenti dovevano fare capo a Torino, Gaeta e Castelfidardo.»
Insomma c’era persino un monumento a ricordo delle supposte fucilazioni, eppure non ci sono testimonianze o riferimenti che parlino delle fucilazioni di massa prima di Ciano. Autore spesso contestato per le sue cifre iperboliche, come nel caso di Pontelandolfo. E proprio il sindaco di Gaeta nel centenario dell’Unità d’Italia, 1961, (cioè quando sarebbe stata scoperta la fossa comune per i lavori della palestra Carducci!) ricordando giustamente le distruzioni subite dalla città un secolo prima si limitò alle cifre ufficiali!
Trarre le conclusioni
Il monumento tronco-piramidale era probabilmente un semplice ossario in cui furono traslati i corpi delle vittime degli ultimi giorni d’assedio, plausibilmente seppelliti in fretta e furia nelle fosse comuni all’interno dei bastioni. Anche perché all’epoca (quella immediatamente successiva all’unificazione e/o instaurazione del Regno d’Italia) vi fu un tentativo di proporre una memoria condivisa alla faccia dei tentativi divisivi di oggi. Testimonianza diretta è il monumento a targa posto sul bastione Philipstad da parte dell'”esercito italiano” che ricorda i caduti sabaudi e quelli duo siciliani, con entrambi gli stemmi.
Insomma il monumento tronco-piramidale come uno di quei tanti monumenti, spesso piramidali, nei campi di battaglia ottocenteschi ricordano i caduti. Un peccato che tale monumento non sia sopravvissuto. Probabilmente gli enti locali nel rutilante sviluppo urbanistico degli anni ’60 non si comportarono in maniera tanto diversa dall’artiglieria piemontese di Cialdini. Con gli storici locali ad abdicare la loro funzione di memoria e verifica sul campo. Perdendo anche la memoria locale di quei mille morti di Gaeta sopravvissuta per quasi un secolo e di cui oggi non abbiamo più memoria.
Al suo posto, trent’anni dopo, nasce la leggenda nera della fucilazione di massa di Gaeta, ampiamente ripresa senza troppo questionare. Leggenda nera che di anno in anno diventa sempre più popolare perdendo sempre qui quel nucleo di verità originario.
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1 – Scrive Guerri a pagina 66: «Quasi un secolo e mezzo dopo, nel 2008, a Gaeta vinsero le elezioni comunali una lista civica e il Partito del Sud, fondato da Antonio Ciano, originario della cittadina, ex comunista, autore dei saggi pamphlet “I Savoia e il massacro del Sud” e “Le stragi e gli eccidi dei Savoia”.»
2 – E a metà degli anni ’90 si iniziano a diffondere, riprendendo vita a trent’anni dal la dato da Il Mattino dei Maghi di Bergier e Pauwels, anche le peggiori nazi-isterie a tema dischi volanti? Un caso?
Ottima ricostruzione storica. Gli studiosi di storia locale sanno che l’area in questione fu più volte nel corso dei secoli utilizzata a scopo cimiteriale. Durante la costruzione della vicina via Firenze, negli anni ’60, furono rinvenuti resti di una necropoli romana oggi esposti nel museo del CSC. Nel 1576 i cappuccini fondarono nei pressi dell’attuale scuola Carducci il convento di Santa Maria della Pietà. Già nel 1646 ricevettero un ordine di sgombero perché l’edificio disturbava le linee di tiro della piazzaforte; le sepolture ovviamente rimasero. In seguito, probabilmente dopo l’assedio del 1707, fu realizzato nell’area dell’ex convento un “camposanto dei militari”, ben visibile nelle mappe di fine ‘700. Nel 1744 il falegname mastro Giuseppe Castigliano fu pagato 6 ducati e 3 grana per lavori nella cappella del camposanto dei soldati, “sita nello spiazzo di Montesecco verso Serapo”. Questo cimitero è ancora menzionato in piante e documenti del secolo successivo e nulla vieta di credere che i caduti dell’assedio del 1861, al pari di quelli dei 4-5 assedi precedenti, siano stati sepolti nello stesso punto.