L‘indipendenza del Kossovo, voluta dagli USA e «accettata» dall’Europa, apre un nuovo capitolo di una storia lunga secoli e che riguarda da vicino, non solo geograficamente, l’Italia. Mondo cristiano e mondo islamico si confrontano in quelle terre dal XIV secolo. E su quel contrasto – ancora vivo – si sono inseriti via via altri attori: i serbi, la Russia, gli italiani, i tedeschi, nazionalisti d’ogni bandiera, comunisti ed ex comunisti, la NATO e – non da oggi – anche Washington. Il protagonista più pericoloso e pasticcione. E il meno a rischio di tutti perché è il più lontano…
di Michele Rallo da Storia in Rete n. 32 – Giugno 2008
Sarà un caso, ma Pristina, la capitale dell’ultimo nato fra gli Stati europei, si trova a quattro passi da Sarajevo: più o meno – in linea d’area – la distanza che separa Roma da Salerno. Fino a non molti anni or sono, le due città facevano parte della porzione musulmana della Iugoslavia comunista, esattamente come – fino ad un secolo fa – appartenevano al medesimo nocciolo duro del dominio balcanico degli ottomani. E speriamo che somiglianze ed analogie si fermino qui. Speriamo che Pristina non debba rappresentare per l’Europa del XXI secolo ciò che Sarajevo ha rappresentato per l’Europa del XX secolo: l’infrangersi di equilibri risicati, l’inizio di una destabilizzazione galoppante, il detonatore di esplosioni epocali. Già, perché il pericolo della strana dichiarazione d’indipendenza cossovara (17 febbraio scorso), voluta dagli americani, è proprio questo: la destabilizzazione degli assetti europei, un precedente devastante, un prevedibile effetto «domino» che potrà investire non soltanto la Russia (come è evidente) ma anche altri paesi europei dell’est e dell’ovest, fomentando separatismi e terrorismi dal Caucaso alla penisola iberica, con l’aggravante di favorire la nascita e il rafforzarsi di un «Islam europeo» di cui – francamente – non si avvertiva la mancanza.
Intendiamoci: il Cossovo è una regione oggi abitata in larghissima parte da albanesi – ancor più dopo i sommovimenti degli ultimi anni – e quindi la sua indipendenza dalla Serbia è un fatto teoricamente giusto se si segue il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Sul piano politico, però, l’evento è tutt’altro che legittimo e, soprattutto, è del tutto inopportuno e sommamente pericoloso. Ma, tant’è: l’America ha deciso, e l’Europa – con qualche rara eccezione – ha chinato disciplinatamente la testa. Tra i più solerti, naturalmente, l’Italia, che non sembra preoccuparsi del sorgere – a poche braccia di mare dalle sue coste adriatiche – di un terzo Stato islamico: dopo l’Albania e la Bosnia (altra creatura americana), il Cossovo; senza contare le consistenti minoranze musulmane in Macedonia (30%), in Montenegro (18%) e in Bulgaria (12%). Gli USA e i loro alleati europei chiudono così l’ultimo capitolo di quella fantasiosa opera chiamata «Iugoslavia», un’opera che loro stessi avevano tenuto a battesimo alla fine della Prima guerra mondiale, creando uno Stato artificiale che insidiava la sicurezza dei confini orientali (terrestri e marittimi) dell’Italia, peraltro rinnegando le promesse con cui l’Intesa aveva carpito la nostra alleanza e strappandoci – con la forza del ricatto economico – Fiume e la Dalmazia [vedi «Storia in Rete» n° 28 NdR]. Dimentichi di essere stati proprio loro i principali fautori dell’utopia sud-slavista, gli americani tolgono l’ultimo petalo al fiore di Belgrado: dopo la Slovenia, la Croazia, la Macedonia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro… adesso il Cossovo-Methodja. Perché? Certamente per fare un dispetto a Mosca, la «grande madre slava» protettrice della Serbia, per provocare Putin, per rigettarlo sulle vecchie barricate della «guerra fredda». Ma, forse, non soltanto per questo. Forse è l’Europa stessa l’obiettivo delle molte azioni destabilizzatrici di una strategia americana che – in caso contrario – sarebbe francamente incomprensibile.
Ma non vogliamo avventurarci sui sentieri impervi della politica e della fantapolitica, e preferiamo tornare sui binari della storia, nel tentativo di ricostruire le vicende che hanno portato – oggi – all’indipendenza del Cossovo. Iniziamo col dire che il Cossovo è sempre stato una marca di confine: ieri, tra la Serbia e l’Impero Ottomano; oggi, tra la Serbia e l’Albania; ieri come oggi – infine – tra la Cristianità ortodossa e la penetrazione maomettana nell’Europa Orientale. Questa contrapposizione è simbolizzata dalla grande battaglia di Cossovo Polje (il «Campo dei Merli») che, nel 1389, vide lo scontro epico e sanguinosissimo tra le sfortunate armate cristiane del principe Lazar Hrebeljanovic e quelle, vittoriose, musulmane del sultano Murad I. Questo articolo muove, però da un’epoca più recente: dal 1912, alla vigilia di quelle Guerre Balcaniche che avrebbero drasticamente ridisegnato la mappa dell’Europa sud-orientale. All’epoca, i possedimenti ottomani nella penisola balcanica erano raggruppati in cinque grandi regioni (i vilayet): Cossovo, Scutari, Jiannina, Monastir e Salonicco. Il vilayet di Cossovo comprendeva – grosso modo – il Cossovo propriamente detto e i sangiaccati (cioè le province) di Skoplje, a sud, e di Novi Pazar, a nord; quest’ultimo era formato da una striscia che si interponeva tra il regno di Serbia e il principato del Montenegro. Dopo il riassetto seguito alle Guerre Balcaniche ed all’espulsione pressoché totale della Turchia dall’Europa, la Serbia, il Montenegro, la Grecia e la neonata Albania si spartivano i territori dei vilayet. Quello di Cossovo veniva suddiviso in tre parti: Novi Pazar era diviso a metà fra Serbia e Montenegro (che così raggiungevano una frontiera comune), Skoplje veniva accorpata alla banovina del Vardar (cioè alla Macedonia settentrionale) ed annessa alla Serbia, ed il Cossovo propriamente detto (grossomodo i territori di Mitrovica, Pec, Pristina e Prizren) assumeva una conformazione simile all’attuale ed era parimenti assegnato alla Serbia, malgrado una maggioranza albanese che comprendeva circa i due terzi degli abitanti.
Naturalmente, il fatto che la popolazione cossovara fosse in grande maggioranza formata da schipetari non impensieriva né la Serbia né le potenze europee che avevano avallato la spartizione dei territori ex-ottomani. Belgrado mandava in Cossovo una gran massa di coloni serbi («ingegneria etnica») e dava l’avvio alle stragi di rito («pulizia etnica»). Le prime vittime della colonizzazione erano circa 20 mila cossovari di etnia albanese (e turca), sterminati metodicamente per far posto ai nuovi arrivati serbi. La mattanza, interrotta dallo scoppio della Prima guerra mondiale, riprese con nuova lena (e nuove atrocità) alla fine del conflitto, mentre gli abitanti di interi villaggi – scacciati dalla loro terra – varcavano il confine e si rifugiavano nel cosiddetto «Cossovo albanese». La popolazione di etnia schipetara si opponeva con la forza alla forza dei serbi. Nasceva così un forte movimento di resistenza che saldava il primo abbozzo di un partito nazionalista borghese (gli eredi della vecchia Lega di Prizren) ai guerriglieri Kaçak del leggendario capo Azem Bejta (e poi della sua vedova Shota). Parallelamente, in una Albania che pur stentava ancora a trovare una propria precisa identità nazionale, i primi circoli nazionalisti (sostenuti dagli italiani, rivali dei serbi) guardavano al Cossovo come ad un territorio irredento di cui si rivendicava il ritorno nel seno della madrepatria etnica. Il primo segnale in questa direzione si aveva nel novembre 1918, quando Hasan bey Prishtina – con il discreto patrocinio del generale Settimo Piacentini, comandante delle truppe di spedizione italiane – costituiva a Scutari il Comitato Nazionale per la Difesa del Cossovo. Da quel momento, le vicende della lobby cossovara confluivano totalmente nel fiume in piena della politica interna albanese. Pristina diventava il primo capo di una specie di «partito italiano» (e cioè di una sorta di unione di tutti gli ambienti albanesi che guardavano all’Italia come punto di riferimento internazionale), che si contrapponeva ad un «partito serbo» che – nei primi anni Venti – faceva capo ad un altro giovane di grandi ambizioni: quello Zogu Zogolli bey Mathi che ricopriva allora la carica di ministro degli Interni e che sarà poi Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica e infine – passato dal campo serbo a quello italiano – Re degli Albanesi.
Non possiamo in questa sede sintetizzare l’intera vicenda della politica albanese e delle sue connessioni con la questione cossovara, ma alcuni dati significativi meritano comunque di essere ricordati. Primo evento degno di nota è la designazione di Hasan bey Prishtina alla guida del governo albanese; il capo cossovaro si insediava il 6 dicembre 1921, ma le truppe di Zogu lo defenestravano dopo pochi giorni, prima ancora che potesse nominare i ministri del suo governo. Altro fatto notevole è – nel 1922 – la marcia delle truppe cossovare di bey Pristina e del capo Bajram Curri attraverso tutta l’Albania settentrionale e centrale, ed il loro assedio alla capitale Tirana; assedio fallito solo per un episodio di corruzione riconducibile ad agenti inglesi. Ed ancora – nel 1923 – la partecipazione del Comitato cossovaro alla creazione del cartello d’opposizione – nazionalista-borghese e filoitaliano – denominato Bashkimi Kombëtar (Unione Nazionale), che vinceva le elezioni politiche che si svolgevano tra il mese di dicembre ed il gennaio successivo. Nel 1924 la scalata del movimento cossovaro al vertice della politica albanese sembrava infine trionfare: gli uomini di Bajram Curri costituivano il nucleo delle truppe del Bashkimi Kombëtar che, a giugno, marciavano su Tirana, cacciavano Zogu e portavano al potere il vescovo ortodosso Fan Stylian Noli, il capo della coalizione nazionalista. Noli insediava un governo dai tratti nettamente italofili ed antiserbi, che però aveva vita breve: Zogu tornava in patria alla testa di un esercito armato dai serbi (e dagli inglesi della Anglo-Persian Oil Company) e costringeva alla fuga Fan Noli ed i cossovari. Aveva inizio, da allora, un cupo quindicennio di potere zoghista. Il bey del Mathi si insediava saldamente al potere, deambulando disinvoltamente fra istituzioni repubblicane e monarchiche, fra protettori serbi, italiani ed inglesi, fino a quando – nel 1939 – gli italiani non lo deporranno ed uniranno il Regno d’Albania alla corona dei Savoia nell’ambito dell’Impero fascista.
Durante tutto l’arco di quei quindici anni, l’antagonismo fra Zogu ed i cossovari permarrà e rappresenterà una costante della politica albanese, sia pure con intensità diverse a seconda dei momenti. Dal canto loro, gli italiani – anche nei momenti di maggiore vicinanza a Zogu – diffideranno sempre del bey del Mathi e considereranno la comunità cossovara d’Albania come il loro migliore alleato; in particolare, continueranno a guardare ad Hasan bey Prishtina come al vero capo del «partito italiano». Viceversa, Zogu (dal 1928 re Zog I) continuava a guardare a Prishtina come al suo nemico numero uno, perseguitandolo e costringendolo ad espatriare. Il bey cossovaro si rifugiava a Vienna, divenuta patria d’adozione di tutti gli esuli ed i cospiratori balcanici. Lì – d’intesa con l’abilissimo agente italiano Vittorio Mazzotti – tesseva le fila di una grande azione comune cossovaro-macedone-croata contro la Iugoslavia; azione, naturalmente, tenuta rigorosamente celata al sovrano albanese. All’inizio del 1931, intanto, si diffondevano voci circa un complotto italiano per esautorare Zog e per elevare al trono albanese proprio il suo nemico cossovaro. Le voci erano, almeno in parte, infondate; ma un fallito attentato alla vita del re ad opera di un altro esponente filoitaliano – il ciamuriota (ossia di origine epirota-albanese) Aziz Cami – faceva precipitare la situazione. Zog scatenava una vera e propria caccia all’uomo che, nell’aprile 1933, si concludeva con l’uccisione di Hasan bey Prishtina a Salonicco, altro crocevia dei cospiratori balcanici.
Seguivano – malgrado i rapporti fra re Zog e gli italiani continuassero ad essere quasi sempre formalmente corretti – alcuni anni di intrighi e di lotte feroci fra l’apparato zoghista ed il «partito italiano» (ora guidato dal leader nazionalista-popolare Mustafà Kruja), costellati anche da azioni violente e da efferati fatti di sangue. Ma la questione cossovara era adesso in minore evidenza, soprattutto a far tempo dal 1935, quando in Iugoslavia saliva al potere il filoitaliano Milan Stojadinovic; ritornava in auge solo quattro anni dopo, nel 1939, dopo la caduta di Stojadinovic e quando l’Italia – a seguito dell’annessione dell’Albania – si faceva ufficialmente portatrice delle istanze del nazionalismo schipetaro. L’occasione per dare concretezza al rivendicazionismo albanese sul Cossovo si presentava infine durante la Seconda guerra mondiale, nel 1941, quando Berlino e Roma scatenavano l’operazione 25 contro la Iugoslavia e l’operazione Marita contro la Grecia. All’attacco contro le posizioni serbe in Cossovo e nella Macedonia Vardarica (e contro quelle greche in Epiro) partecipavano anche le forze militari albanesi, raggruppate in un Gruppo Skanderbeg ed integrate da quattro Legioni della Milizia Fascista Albanese e dalle «bande» guerrigliere delle Forze Irregolari Albanesi, queste ultime rafforzate da una folta componente cossovara. La blitzkrieg balcanica trionfava rapidamente, e l’assetto della regione veniva radicalmente ridisegnato. La Grecia era spartita in due zone d’occupazione (italiana e tedesca) ed una parte veniva de facto annessa dalla Bulgaria (più o meno secondo i confini pre-1914) e tuttavia non veniva cancellata dalla carta geografica. Non così la Iugoslavia, le cui spoglie erano divise tra una rediviva Serbia (sotto amministrazione militare tedesca), un neonato regno di Croazia (che inglobava la Bosnia-Erzegovina) e il restaurato Montenegro, oltre alle annessioni dei paesi confinanti. Tra queste ultime, la più significativa era certamente quella del Cossovo e del Dibrano (cioè della fascia più occidentale della Macedonia Vardarica), che – dietro gli auspici del governo italiano – erano ricongiunti alla madrepatria albanese. Faceva eccezione solamente la provincia più settentrionale di Mitroviza (con una più densa componente etnica serba), dichiarata autonoma e mantenuta sotto l’autorità della Serbia (ad agosto verrà costituito il Governo Nazionale Serbo del generale Nedic) e dell’amministrazione militare tedesca (Militärbefehlshaber Serbien).
Naturalmente, non erano tutte rose e fiori: l’amministrazione autonoma di Mitroviza divenne un polo d’attrazione per i sussulti delle componenti antitaliane del nazionalismo albanese (incoraggiate peraltro dai tedeschi), mentre nel resto del territorio il diplomatico italiano Carlo Umiltà – nominato Commissario Civile per il Cossovo ed il Dibrano – aveva il suo daffare per proteggere la popolazione serba dal rancore di quella albanese e per evitare un immenso bagno di sangue. Il 28 giugno 1941 – comunque – pur con numerose pendenze ancora non definite (oltre a Mitroviza, la Ciamuria, nonché i nuovi confini con la Bulgaria e il Montenegro), si procedeva all’incorporazione ufficiale dei nuovi territori all’Albania. Tra manifestazioni di giubilo popolare e giuramenti di imperitura riconoscenza verso l’Italia e l’Asse, nasceva la Grande Albania, risultante dall’unione della «piccola Albania», del Cossovo e del Dibrano. Gli italiani lasciavano l’amministrazione civile del territorio (Carlo Umiltà passerà le consegne al suo omologo albanese Feizi bey Alizoti), ma non quella militare: due Divisioni di fanteria rimanevano a presidiare i nuovi distretti albanesi e, se non potranno evitare del tutto una brutale sequela di violenze e uccisioni, riusciranno comunque – con energici e ripetuti interventi – ad impedire una gigantesca pulizia etnica e ad assicurare il deflusso della parte più esposta della popolazione slava verso la Serbia e il Montenegro. Naturalmente, dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, si ritornava allo scenario precedente: il Cossovo era riannesso alla risorta Iugoslavia, i serbi tornavano ad essere padroni, e gli albanesi tornavano ad essere oggetto di persecuzioni e angherie, adesso condite in salsa comunista.
Una volta ritornato più o meno alla normalità, il Cossovo venne costituito in «provincia autonoma» della Serbia (come la Vojvodina), gerarchicamente e costituzionalmente al di sotto delle sei repubbliche etniche costituenti la Repubblica Federativa Popolare di Iugoslavia. Questa volta, tuttavia, gli strateghi di Belgrado decidevano di non dare avvio ad un massiccio afflusso di coloni serbi, la qual cosa determinava il progressivo accentuarsi della connotazione albanese della regione. Faceva eccezione, ancora una volta, la Mitroviza – e segnatamente la sua porzione più settentrionale – che si confermava come una sorta di prolungamento della Serbia in territorio abitato da popolazioni schipetare. Per il resto, l’etnia cossovaro-albanese (la più prolifica dell’intera Europa) riprendeva a crescere e, di converso, quella cossovaro-serba diminuiva la propria consistenza percentuale. Peraltro, dopo una iniziale fase di feroce vendetta «antifascista» contro intere popolazioni (che gli italiani di Istria e Dalmazia ben ricordano), il sistema titoista puntava decisamente sulla convivenza pacifica delle varie etnie Iugoslave e, conseguentemente, la popolazione albanese del Cossovo non subì più i rigori della violenza serba, quale si era manifestata nel periodo tra le due guerre mondiali e subito dopo la seconda. Anzi, paradossalmente, può dirsi che – soprattutto negli ultimi anni del regime comunista-titoista – i serbi iniziassero a sentirsi sempre più a disagio, sempre meno tutelati, progressivamente sovrastati dalla costante crescita dell’etnia schipetara.
La situazione si appesantiva nel 1980, quando la morte del maresciallo Tito (che con il suo carisma e con il suo draconiano apparato poliziesco aveva fino ad allora assicurato l’unità del paese) riportava improvvisamente la Iugoslavia all’atmosfera degli anni ’40, con le varie etnie che tornavano a rivendicare l’indipendenza e con un clima appesantito dalla crisi del comunismo mondiale, che si materializzerà negli anni seguenti. A fare precipitare le cose era poi l’inadeguato successore di Tito, Slobodan Milosevic, che indirizzava bruscamente il partito comunista Iugoslavo sui binari di un imperialismo panserbista del tutto anacronistico, tentando di cavalcare il malcontento dei serbo-cossovari e di indirizzarlo verso una linea di contrapposizione frontale all’etnia schipetara. Questa politica culminava – nel 1989 – con la revoca delle prerogative autonomiste della provincia cossovara e con una serie di misure (abolizione dell’albanese come seconda lingua ufficiale della provincia, chiusura delle scuole albanesi, sostituzione dei funzionari albanesi, eccetera) del tutto assurde – se non ridicole – considerato che gli schipetari costituivano ormai circa il 90% della popolazione regionale.
La puerile gestione della crisi cossovara da parte di Milosevic segnava l’inizio della disgregazione della Iugoslavia, con una serie ininterrotta di eventi drammatici e clamorosi: una prima seppur inefficace dichiarazione d’indipendenza da parte del Cossovo, riconosciuta solo dall’Albania (luglio 1990); l’indipendenza di Slovenia e Croazia (giugno 1991) che davano la stura al quinquennio delle «guerre Iugoslave» (1991-1995); l’indipendenza della Macedonia (settembre 1991); quella della Bosnia-Erzegovina (aprile 1992) con la successiva suddivisione tra una Repubblica Serba di Bosnia ed una Federazione che bene o male rappresentava le componenti bosniaca e croata (maggio 1994); la rivolta dell’UCK e l’inizio della «guerra del Cossovo», che seguiva immediatamente la fine delle «guerre Iugoslave» (1995); l’intervento della NATO contro la Serbia e la proclamazione del protettorato internazionale sul Cossovo (1999); la fine di quel che restava della Iugoslavia e la sua sostituzione con la confederazione di «Serbia e Montenegro» (febbraio 2003); gli attacchi alle chiese e ai monasteri cristiano-ortodossi in Cossovo da parte di elementi musulmani (2004); la proclamazione d’indipendenza del Montenegro e il ritorno della Serbia ad un assetto territoriale simile a quello che aveva preceduto la Grande Guerra (giugno 2006); e, infine, la seconda dichiarazione d’indipendenza del Cossovo dalla Serbia, indipendenza questa volta riconosciuta dagli americani e dai loro seguaci oltre che dai paesi islamici (17 febbraio 2008).
Si concludeva definitivamente – così – l’esistenza dello Stato artificiale «iugoslavo» che, al pari di quello «ceco-slovacco», era stato creato dagli angloamericani e dai francesi all’indomani della Prima guerra mondiale, in totale dispregio al tanto sbandierato «principio di nazionalità» che avrebbe dovuto presiedere alla definizione delle frontiere europee. Il Presidente statunitense del tempo – Woodrow Wilson – era stato colui che aveva tenacemente propugnato la nascita dello «Stato trino» serbo-croato-sloveno, imponendo anche che questo inglobasse importanti territori popolati da italiani. Oggi, un altro Presidente statunitense – George W. Bush – ha definitivamente sotterrato il corpo mutilato della Iugoslavia. La storia dirà quale dei due leader americani potrà essere considerato il più nefasto per gli equilibri e per gli interessi europei.