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L’epopea degli Asburgo. Dai fasti al crollo di una grande dinastia

L’Impero retto dalla secolare casata viene scandagliato (senza alcuna apologia) in ogni intreccio politico, sociale, culturale e istituzionale. Emerge la visione di uno Stato «unificato e unificante». La Grande Guerra avrebbe interrotto il processo di evoluzione verso un ordinamento liberale

di Raffaele Liucci da Il Sole 24 Ore del 16 gennaio 2022

Il principe di Saurau, eccentrico personaggio di Thomas Bernhard, si macera in vani soliloqui passeggiando lungo le mura esterne di un castello immerso in una valle tenebrosa, popolata da uomini abbrutiti e moribondi. Un castello «dove in certi momenti si sono sentite parlare tutte le lingue del mondo», dove si poteva trovare quanto «al mondo esiste di più prezioso, di più ambizioso, di più sbalorditivo», dove si riunivano «i virtuosi più celebri di tutte le arti» (Perturbamento, 1967). Saurau incarna il dramma di Carlo I d’Austria, l’ultimo degli Asburgo, costretto alla fine della Prima guerra mondiale a liquidare un impero sul quale un tempo non tramontava mai il sole, malauguratamente ridottosi, dopo la sua abdicazione, a un piccolo e ininfluente staterello, la Repubblica austriaca (1918).

Quello asburgico fu il primo dei grandi imperi continentali a sparire dalla carta geografica dell’Europa, sostituito da tre nuovi Stati (Cecoslovacchia, Polonia e Jugoslavia) e da quattro Stati già esistenti (Austria, Ungheria, Italia e Romania). A ripercorrerne le vicende è ora un libro per il quale, una volta tanto, l’aggettivo «monumentale» non suona stonato. Lo firma Pieter M. Judson, professore all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. L’arco cronologico, va precisato, copre la storia dell’Impero austriaco propriamente detto: proclamato nel 1804 da Francesco I al momento del collasso del Sacro Romano Impero (in cui peraltro, come è noto, la Casa d’Asburgo aveva esercitato un ruolo preponderante) e dichiarato defunto da Carlo I il 12 novembre 1918. Però non poche sono le pagine dedicate ai prodromi settecenteschi, da Maria Teresa d’Austria ai suoi due figli, Giuseppe II e Leopoldo II.

Ci sono, in sostanza, due tipologie di libri di storia. Quelli frutto di ricerche condotte su fonti primarie (soprattutto d’archivio), aventi per oggetto un argomento geograficamente e temporalmente circoscritto. E poi i vasti affreschi, spesso sin troppo compilativi, ossia imperniati su una bibliografia secondaria più o meno ristretta. Questo volume di Judson, invece, pur essendo costruito in buona misura sui lavori altrui, rivela una padronanza capillare dell’argomento e una spiccata originalità. Non c’è provincia sperduta dell’Impero che sia sfuggita al suo sguardo indagatore, capace di ricondurre a un quadro d’insieme vicende che, lette singolarmente, apparirebbero insignificanti. Il tutto, poi, è condensato in uno stile narrativo piano e scorrevole, oltre che impreziosito da un indice analitico (un apparato indispensabile nei libri di storia, di cui purtroppo si è persa la memoria nell’editoria nostrana). Intrecciando storia politica e storia sociale, storia delle istituzioni e storia culturale, Judson ha sfornato un tomo che può essere delibato a spicchi anche dal lettore non specialista. Dal dispotismo illuminato di Maria Teresa alla nascita nel 1867 dell’Austria-Ungheria (la «duplice-monarchia»). Dall’abolizione del feudalesimo all’emancipazione ebraica. Dal ruolo della censura e della polizia segreta alla fioritura dei giornali. Dallo sviluppo dellarete ferroviari alla prima Fiera Mondiale di Vienna, inaugurata al Prater nel 1873 da Francesco Giuseppe I. Dal Risorgimento italiano visto da Vienna (argomento per noi di grande interesse) alla Prima guerra mondiale, il catalogo è ricchissimo, capace di soddisfare ogni curiosità.

La novità principale di questo lavoro risiede tuttavia nell’impalcatura interpretativa generale. Judson rifugge dai due principali paradigmi a lungo dominanti: quello apologetico e nostalgico (il «mondo di ieri» di Zweige, la Cacania di Musil, idealizzati oltremisura) e quello liquidatorio (l’Impero austriaco come mero anacronismo, destinato a essere soppiantato dagli Stati nazionali). La sua «nuova storia» ribalta completamente il punto d’osservazione: al centro non vi sono più i gruppi linguistici, le frammentazioni regionali e le differenze culturali che hanno contraddistinto e infine minato il dominio asburgico, bensì, l’Impero, inteso come Stato «unificato e unificante». Contestualizzato nella sua storia ottocentesca, l’Impero appare infatti non un’anticaglia, ma una struttura duttile e funzionale, in grado di governare le spinte centrifughe di un territorio tanto complesso ed eterogeneo.

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La Grande Guerra non fu affatto «il proverbiale colpo di grazia che fece cadere un impero vacillante». Semmai, il conflitto mondiale interruppe bruscamente il processo di modernizzazione e democratizzazione verso un «Impero liberale», sviscerato in queste pagine. Per di più, se le mosse di Carlo I fossero state meno avventate, probabilmente gli Asburgo non si sarebbero dissolti così velocemente. Come ha illustrato Paolo Macry (Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, il Mulino 2009), il crollo improvviso di uno Stato è il risultato di «una partita il cui esito resta aperto sino all’ultima mossa». Judson, va ribadito, offre questa nuova, illuminante effigie dell’Impero basandosi su solide ricerche. Di storia, e non di miti o immaginari o memorie collettive, parla il suo libro. E altrettanto concrete sono le pagine conclusive, riservate al «mondo del dopo». Pur rigettando l’eredità dell’Impero austriaco, gli Stati indipendenti subentrati al suo posto si comportarono come tanti «piccoli imperi», acquisendo nuovi territori, incamerando popolazioni di varie etnie difficili da integrare su basi nazionali, reprimendo le rivendicazioni nazionaliste e abbandonando presto ogni velleità democratica. Di ben altra statura era stata la «peculiarità asburgica», capace di negoziare le diversità culturali e di «far funzionare efficacemente le istituzioni politiche e sociali organizzate intorno a tali differenze». Aveva dunque ragione l’inquietante principe di Saurau? Si stava meglio quando si stava peggio?

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