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Jan Palach. La fiaccola della libertà cecoslovacca è oggi un mito in oblio

Sulla scia delle rievocazioni del 55° anniversario dell’invasione dei carri armati sovietici che spezzarono la Primavera di Praga, un ricordo di Jan Palach e del suo sacrificio

di Pierluigi Mennitti da StartMag del 26 agosto 2023

Nelle ricostruzioni di questi giorni dell’intervento sovietico che 55 anni fa spezzò la Primavera di Praga, a ricordare l’evento più tragico di quella rivoluzione mancata sono stati in pochi. Eppure per decenni il mito di Jan Palach, il giovane studente universitario che si diede fuoco nella centrale e simbolica piazza San Venceslao di Praga, influenzò generazioni di studenti, poeti e cantautori in tutta Europa. Oggi Jan Palach sembra invece scivolato nell’oblio della storia.

Eppure a praga le lapidi che lo ricordano sono un po’ dappertutto. Quei lineamenti che il fuoco sfigurò mortalmente per sempre li puoi seguire scolpiti nella pietra o disegnati con un filo di bianco sulla lastra nera che giace proprio ai piedi di Venceslao il Santo, il patrono di Boemia che si staglia in groppa al cavallo di bronzo in cima alla piazza omonima, cuore di tutte le passioni boeme, dalla rivoluzione fallita del 1968 a quella riuscita del 1989, dal piombo acre dei cannoncini dei carri armati ai fiori colorati della rivoluzione di velluto.

Il volto di Jan Palach mostra gli zigomi pronunciati tipici degli slavi, gli occhi fieri, il ciuffo sbarazzino di ventenne senza paura. Sotto, le date di nascita e di morte, l’arco troppo breve di una vita bruciata attorno a una speranza svanita.

Era il 16 gennaio del 1969 quando questo studente, stretto in un cappotto di lana, si avvicinò a passi svelti al basamento della statua. La piazza San Venceslao è un immenso spiazzo aperto, quando ci si arriva si fatica a immaginarselo come una piazza. Sembra piuttosto un lungo boulevard, di quelli che si possono trovare nei grandi spazi di Parigi. Sale ripido dai viottoli della città vecchia, dalle parti dell’Università Carlo, fino all’incrocio di due grandi viali, il Vilsonova e il Mezibranska. A percorrerlo tutto, si attraversano pure per due fermate della metropolitana, Mustek e Muzeum, tanto è lungo. Le auto scivolano lente su due carreggiate, una a salire l’altra a scendere, ai lati negozi di ogni genere, souvenir, librerie, edicole, gioiellerie, antiquari, gli immancabili fast food della nuova era, e poi i lussuosi grandi hotel, nei cui caffè al piano terra è transitata la moltitudine cosmopolita dei letterati che hanno fatto di Praga uno dei centri più vitali della cultura europea. Tra le due carreggiate un ampio spazio pedonale anche al centro, come sull’Unter den Linden di Berlino: mattonelle, aiuole, piante, panchine. E’ dolce la vita a San Venceslao, la piazza che sembra un boulevard.

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Ma quel 16 gennaio di quarant’anni fa la dolcezza se n’era andata con i carri armati sovietici e la primavera di Praga era sfiorita in un autunno, e poi in un inverno, carico di terrore e rassegnazione. I sovietici avevano ad agosto forzato la mano e imboccato la via della restaurazione: la dottrina brezneviana della sovranità limitata aveva sbarrato la strada al socialismo dal volto umano, e con esso a qualsiasi ipotesi di riforma del comunismo. In più, la demolizione del sogno riformista venne affidata alle stesse mani che l’avevano costruita: fu l’umiliazione peggiore per un popolo che aveva mostrato coraggio e indipendenza e che aveva provato a sfidare il potere con le armi della gentilezza e dell’ironia. Il Dubcek che aveva incarnato la scommessa riformista fu costretto a guidare la marcia indietro, a smantellare le libertà acquisite, a ripristinare il grigiore passato.

Infagottato, Jan Palach percorse tutta la salita fino al basamento, appoggiò la borsa su una pietra, si tolse il cappotto e si cosparse il corpo di benzina. Quindi accese un cerino e diventò fuoco. Il primo a soccorrerlo fu l’autista di un tram che in quegli istanti transitava sulla piazza. Si precipitò su Palach e gli gettò addosso il proprio pastrano.

Riuscì a strapparlo alla morte ma solo per pochi giorni. Tre, per l’esattezza, tanto durò la sua agonia. Ricoverato nell’ospedale della capitale, nei rari momenti di lucidità s’informava sulla reazione al suo gesto. L’androne dell’ospedale, così come il luogo in cui si è dato fuoco, furono coperti di fiori e lumini. La notizia gli strappò gli ultimi sorrisi. Morì il 19 gennaio.

Fu l’ultimo scossone alla politica di restaurazione. I suoi funerali radunarono quasi un milione di persone dietro il feretro, lungo il percorso e nella piazza San Venceslao. Il corteo fu aperto dalla banda degli ottoni di uno stabilimento industriale di Praga e dal corpo accademico vestito nelle toghe medievali. Era una giornata di pioggia e freddo. Dai palazzi vennero srotolati pesanti drappi neri. L’emozione era forte ma ancora una volta non scoppiò alcuna violenza. Nei mesi successivi, altri giovani si immolarono, emulando il sacrificio di Jan Palach. La catena era stata annunciata dallo stesso Palach, in una lettera trovatagli nella tasca del cappotto. Tra questi Jan Zajic, la cui immagine affianca oggi quella di Palach sulla piazza San Venceslao. Ma non successe nulla. La macchina del potere chiudeva inesorabilmente tutti gli spazi liberi rimasti. Ne fu vittima lo stesso Dubcek, depresso e ormai l’ombra del leader coraggioso e determinato che fu. Sparì anche lui nelle pieghe dei dimenticatoi dell’est.

Ma come arrivò Palach a diventare un simbolo di libertà? Nacque l’11 agosto 1948 a Melnik, una manciata di chilometri a nord di Praga proprio nell’anno in cui il partito comunista prese il potere in Cecoslovacchia. Perso il padre a soli tredici anni, si maturò nel locale liceo ginnasio nel 1966 con la speranza di iscriversi all’università. Nonostante un ottimo esame in filosofia, dovette attendere due anni prima di accedere agli studi universitari per il sovraffollamento delle iscrizioni. Si iscrisse proprio nel 1968, l’anno della Primavera di Praga. E prese a frequentare i movimenti studenteschi che, assieme a quelli degli operai delle fabbriche, rappresentarono il nerbo della rivolta praghese. Visse la speranza delle riforme e la delusione e la rabbia per l’intervento dei carri armati del Patto di Varsavia, la notte fra il 20 e il 21 agosto. Aveva compiuto vent’anni da poco più di una settimana.

In autunno, alla ripresa dei corsi, l’Università Carlo entrò in sciopero, ma nei mesi successivi le vicende politiche imboccarono la via della restaurazione. Fu in questo clima di disincanto che Jan Palach maturò, assieme a un gruppo di amici, l’idea di dare una scossa ai suoi concittadini e agli studenti, affinché riprendessero a lottare per gli ideali traditi. Le fiamme di Palach e dei suoi amici (si contarono ancora quattro suicidi) non riscaldarono più la primavera del Sessantotto praghese ma furono le stelle comete che i cecoslovacchi seguirono fino alla rivoluzione del 1989.

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