Vita e misteri di una delle figure più controverse del mondo francescano. Autore di splendide laudi, fu uno dei padri della nostra letteratura. Seguace di san Francesco e oppositore di papa Bonifacio VIII, “giullare” e mistico, percorse l’Umbria medievale lasciando, ai suoi tempi, pochissime tracce. Sul suo conto, dopo la morte, fiorirono numerose leggende. Storia di frate un che non riuscì – suo malgrado – a diventare santo.
Di Elena Percivaldi – da Storia in Rete n° 17
Jacopone da Todi: pazzo, mistico o santo?
«O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo; / pensome che iocondo non te ’n porrai partire!». La celebre invettiva di Jacopone da Todi contro il pontefice Bonifacio VIII, che lo aveva fatto incarcerare nei sotterranei del convento di San Fortunato, risuona ancora oggi come un potente monito contro chi, nella Chiesa, più che di questioni spirituali si ostina ad occuparsi di faccende mondane, allontanandosi da quel modello di santità indicato con tanta forza da chi da sempre si richiama alla parola vera di Cristo. E sono versi che tra l’anno scorso e quello appena iniziato sono stati e saranno letti e recitati chissà quante volte insieme ai tanti altri scritti dal frate nelle sue Laude, visto che di Jacopone, nel 2006, si sono celebrati i 700 anni della morte. Un omaggio più che doveroso nei confronti di uno dei protagonisti della letteratura italiana delle origini e di uno dei padri della nostra tradizione poetica, che continua anche nei prossimi mesi.
UNA VITA AI MARGINI
Jacopone (o Iacopone, secondo una variante grafica) da Todi, al secolo Jacopo de’ Benedetti, nacque a Todi da famiglia nobile intorno al 1230. Dopo aver studiato giurisprudenza a Bologna, si avviò alla carriera notarile in città finché, nel 1268, fu colpito da una tragedia che gli avrebbe cambiato la vita: la morte dell’amatissima moglie Vanna, travolta dall’improvviso crollo del pavimento di casa. Al dolore e allo sconcerto che seguì il lutto si aggiunse la scoperta che la consorte, di nascosto, indossava il cilicio come veste penitenziale. Jacopone conobbe così una vera e propria crisi mistica che lo portò, seguendo le orme di san Francesco d’Assisi, a lasciare il lavoro e i rapporti sociali per iniziare un percorso di pubblica penitenza e umiliazione. Un iter spirituale profondo e sofferto, al quale non furono alieni momenti di esaltazione che rasentavano la follia, come quando – narrano le fonti – giunse ad un convivio camminando carponi carico di un basto d’asino, oppure quando alle nozze del fratello si presentò nudo, spalmato di grasso e rivoltato fra piume. Per dieci anni, Jacopone fece vita di “bizzoco”, dedicandosi cioè all’ascesi e mendicando, collocandosi dunque ai margini della società, ultimo fra gli ultimi. Un’esperienza radicale, che terminò solo nel 1278 quando entrò nell’ordine francescano come frate laico.
TEMPI CUPI
Erano, gli ultimi decenni del secolo XIII, momenti cupi per il movimento fondato mano di cinquant’anni prima con tante difficoltà dal poverello di Assisi. Morto Francesco nel 1226, l’ordine, nonostante la fulminea e capillare diffusione un po’ ovunque, si macerava nel travaglio delle lotte intestine tra la fazione dei Conventuali, intenzionati ad attenuare il rigore pauperistico della regola di san Francesco, e il gruppo degli Spirituali, fermamente vocati a mantenere inalterato lo spirito originario dell’Ordine. Jacopone si schierò con questi ultimi, e insieme ai cardinali Jacopo e Pietro Colonna arrivò al punto di disconoscere – firmando il cosiddetto “manifesto di Lunghezza del 10 maggio 1297 – la validità dell’elezione di papa Bonifacio VIII, che invece vedeva di buon occhio l’affermazione dei Conventuali ed aveva sostituito il suo predecessore Celestino V, al secolo Pier del Morrone, “costringendolo” a lasciargli il posto. La reazione del pontefice non si fece attendere. Prima emanò contro gli oppositori la scomunica, poi spedì loro contro un vero e proprio esercito. La roccaforte dei Colonna a Palestrina, stretta in d’assedio, capitolò un anno dopo e fu rasa al suolo. Sul terreno il papa fece spargere il sale in modo che non vi potesse crescere più nemmeno l’erba.
Jacopone, catturato, fu condannato al carcere perpetuo. A liberarlo fu, nel 1303, il successore del Caetani, Benedetto XI. Ormai vecchio e prostrato, il frate poeta poté così trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel convento di San Lorenzo di Collazzone, nelle vicinanze di Todi, dove si spense, pare, il 25 dicembre del 1306.
GIULLARE O SANTO?
Fin qui la storia nota. Ma Jacopone fu un mistico e un santo oppure un giullare e un eretico? Sono due giudizi sulla personalità esattamente agli antipodi, eppure forse entrambi dotati dello stesso “diritto di cittadinanza”, se è vero come è vero che del frate francescano di ufficiale si conosce, in effetti, ben poco. Le fonti sono scarse e poco attendibili, e le poche notizie sulla sua vita derivano da una Leggenda scritta, sembra, intorno al 1425 che molto deve a ciò che di se stesso Jacopone scriveva nelle sue Laude.
Strano a dirsi, ma nonostante la fama di santità di Jacopone si fosse diffusa subito dopo la sua morte, per avere un biografo – o meglio, un agiografo – il frate dovette attendere quasi un secolo, sino al ritratto scritto da un certo Bartolomeo da Pisa nel suo De Conformitate. Fino a quel momento, l’unico documento certo e attendibile è il già citato “Manifesto di Lunghezza”: tra i testimoni che firmano la dichiarazione di non validità della rinuncia al papato da parte di Celestino V e decretano illegittima l’elezione del suo successore Bonifacio VIII c’è proprio il nostro frater Iacobus Benedicti de Tuderto. Tralasciando un altro paio di documenti che parrebbero citare Jacopone tra i testimoni, qualche nota che appare qua e là in cronache scritte nel ‘300 e qualche appunto quattrocentesco, nulla o quasi pare parlarci del frate. Che sembra, ad eccezione della nota vicenda in cui si oppose a Bonifacio VIII e che lo portò in carcere, scomunicato, quasi un fantasma. Fu dopo la morte, dunque, che iniziarono a fiorire sul suo conto numerose leggende, a cominciare dalla vera data della sua scomparsa. Se infatti una nota del codice di Chantilly fissa tale momento al 25 marzo (sbagliando però l’anno, indicato nel 1296, quando invece sappiamo che nel ’97 era a Lunghezza), fra Mariano da Firenze, autore di un paio di Vite di Jacopone in volgare e in latino, sostiene che il frate morì il 25 dicembre del 1306 a Collazzone e che fu sepolto nel convento di Montesanto (o Montecristo), a Todi.
SOMIGLIANZE SOSPETTE
Questione risolta? Niente affatto. Fra Mariano scrive tra fine Quattro e inizi Cinquecento, e riprende nei dettagli – compresi gli aneddoti sulla conversione dopo la morte della moglie, la vita da “bizzocone” e l’ascesi – la Vita scritta tra il 1474 e il 1476 da Giacomo Oddi: entrambi, dunque, scritti molto tardi. Di più. Se si legge la cronaca delle ultime ore di Jacopone secondo il racconto che ne fece il suo primo agiografo, si nota infatti una indubbia somiglianza con la dipartita di un altro personaggio ben noto ai francescani e stranamente omonimo del Nostro, Iacopo da Falerone. Dipartita narrata negli Actus beati Francisci et sociorum eius. Sia Jacopone che Iacopo avrebbero ricevuto infatti, al proprio capezzale, la visita del francescano Giovanni della Verna, giunto miracolosamente a somministrare i sacramenti, il che rende il racconto, vista la congruenza dei dettagli, fortemente sospetto. Come e quando morì dunque Jacopone? Impossibile dirlo con certezza. Non serve, allo scopo, nemmeno seguire gli spostamenti che dovette subire la sua salma. Innanzitutto, perché il frate fu tumulato non a Collazzone, dove morì, ma a Montesanto? Da lì, poi, secondo una nota datata 1433, le ossa sarebbero state spostate a un centinaio di metri di distanza, nell’Ospedale della Carità. Perché? Qui la risposta è più facile. Pare che le Clarisse stessero lasciando per sempre il monastero, ormai quasi ridotto visti i mala tempora, ad un cumulo di macerie. Infine, le ossa trovarono la loro dimora definitiva in San Fortunato.
SANTO MANCATO
L’immagine del frate tramandataci dalla Legenda che si formò sul suo conto risente fortemente dell’intento edificante che vi profusero gli autori delle Vite. Jacopone, quindi, emerge come un modello di amore per Dio e per il prossimo, nel totale disprezzo per il mondo e le sue lusinghe, forte di una vita condotta nel rigore e nella povertà perseguiti fino agli eccessi. Senza timore di essere giudicato pazzo. In ciò richiama chiaramente alla memoria l’esempio di san Francesco e forse, chissà, come il poverello d’Assisi avrebbe potuto conoscere l’onore degli altari. Le cose però andarono diversamente. In certi ambienti ecclesiastici, le scelte fin troppo rigoriste del frate, che già in vita gli avevano attirato l’accusa di volersi spingere “ai margini” dell’ortodossia, lo resero vittima dopo la morte, se non di una vera e propria damnatio memoriae, almeno della congiura del silenzio. A scrivere la parola “fine” sulla sua eventuale beatificazione fu però forse il suo concittadino Giovanni Battista Guazzaroni (morto nel 1624), che ne scrisse la biografia per così dire “definitiva”, anche se in realtà sul piano storico è la meno attendibile. Il “suo” Jacopone, appartenente alla «antica et honorata famiglia de Benedetti», tra invenzioni di nomi e di fatti, si staglia in un’epoca irrorata di tensioni tra le «diaboliche fattioni de Guelfi e Gibellini» come un uomo illustre, non certo come un santo. Ed ecco l’epilogo di questa storia di fraintendimenti. Nel 1596 il vescovo Angelo Cesi fece costruire, sotto l’altare maggiore della chiesa di San Fortunato, una tomba per ospitarne le spoglie di Jacopone da Todi. Incisa sopra, gaffe involontaria ma che ha il tragico sapore della beffa, la data di morte sbagliata.
BOX: LA POESIA: DALL’INVETTIVA ALLA MISTICA DEL LUTTO
La poesia di Jacopone è contraddistinta da una grande varietà di temi, dalla violenta condanna del vizio all’esortazione alla povertà, dall’invettiva contro le degenerazioni del clero contemporaneo e contro lo stesso papa, a un profondo slancio mistico. Il corpus poetico a lui attribuito consta di un centinaio circa di Laudi, tra cui le celeberrime Donna de Paradiso e Il pianto della Madonna, un trattato ascetico e alcuni componimenti latini tra i quali, per intensità e fortuna, svetta lo Stabat Mater, che racconta il dolore della Madonna ai piedi della Croce dove è crocifisso Gesù.
Il linguaggio di Jacopone è basato fondamentalmente sul dialetto umbro, crudo e sensuale; la struttura metrica contamina modelli dell’innografia latina con elementi della tradizione volgare, a dimostrazione della loro forte letterarietà. Letterarietà che è contraddistinta, sempre, da un acceso spirito combattivo che lo colloca al tempo dello scontro interno al movimento francescano tra Spirituali e Conventuali, tra chi cioè (semplificando, ma non troppo) era per una riforma profonda della Chiesa in senso rigorista e morale, e chi invece non si scandalizzava del suo avere a che fare, in tutto e per tutto, con le “cose del mondo”.
Dopo la sua morte i suoi versi conobbero una grande diffusione soprattutto a livello popolare. A favorirne l’apprezzamento senz’altro la vicinanza, quantomeno come ispirazione, al Cantico delle Creature di Francesco. Rispetto al modello, però, i componimenti del frate di Todi sono caratterizzati da un tono e da una poetica assai meno lieta e mistica. Scompare il senso di armonia con la natura e lo stupore (a tratti quasi ingenuo) del mondo che caratterizzava lo slancio di Francesco, vi domina invece una concezione ben più materiale, intima e dolorosa della vita e del creato, in parte autobiografica, in parte dovuta all’oscurità morale dei tempi. In molte laudi prevalgono le accuse e l’invettive agli avversari, come nei citati versi contro Bonifacio VIII, oppure in quelli altrettanto celebri che rimproverano papa Celestino V, al secolo Pier del Morrone, di non fare abbastanza – lui che per gli Spirituali fu depositario di grandi speranze – per promuovere la causa della riforma in seno alla Chiesa. In tutti i componimenti, comunque, si respira potente il senso del realismo e una grande immaginazione, pari forse solo a quella di Dante, che del resto ne conobbe e apprezzò l’opera anche per la forza dello stile e delle scelte linguistiche, di sconcertante efficacia, intensità e violenza espressiva.
Apparentemente semplici e immediate, le laude di Jacopone mostrano invece la profonda cultura del frate e la sua conoscenza della tradizione retorica, sia per quanto concerne l’innografia mediolatina, sia per ciò che riguarda l’allora nascente lirica volgare, sacra e profana. Per questo, Jacopone può essere considerato tra i poeti delle origini secondo solo al Sommo, sia per l’ampiezza dell’opera, sia per la diffusione manoscritta. Dopo la sua morte il laudario fu trascritto decine e decine di volte e diffuso non solo in ambiente culturale umbro, ma anche in Toscana e nel Lombardo-Veneto. E la struggente icasticità dei versi dello Stabat Mater, entrati di prepotenza nella liturgia pasquale e nelle sacre rappresentazioni popolari (al punto da essere musicata da moltissimi compositori da Giovan Battista Pergolesi a Johann Sebastian Bach, da Antonio Vivaldi a Gioacchino Rossini, su su fino a Giuseppe Verdi e oltre), è rimasta per secoli il simbolo più potente della sofferenza e della morte, non solo come mistero liturgico ma anche come lutto profondamente, puramente umano. Ed è forse la religiosità così profonda e schietta la più grande eredità lasciataci da questo frate vissuto sette secoli or sono, ma oggi ancora così attuale.
BOX: UN FRATE E L’ARTE DEL SUO TEMPO
Per celebrare degnamente Jacopone nel VII centenario della morte, la sua città natale ha pensato di allestire al Palazzo del Popolo, nel Museo Pinacoteca, la mostra “Iacopone da Todi e l’arte in Umbria nel suo tempo”. Aperta fino al 2 maggio 2007, è articolata in due sezioni: nella prima, curata da Enrico Menestò dell’Università degli Studi di Perugia, viene ripercorsa l’esperienza umana e spirituale di Jacopone, attraverso l’esposizione di rarissimi manoscritti contenenti i testi delle sue laude, documenti e altre testimonianze dell’epoca, oltre che immagini del frate poeta, tra le quali un frammento di affresco attribuito a Paolo Uccello. Nella seconda, curata da Fabio Bisogni dell’Università degli Studi di Siena, sono invece presentate opere di pittura, scultura e oreficeria dei secoli XII e XIII, che ricostruiscono lo straordinario processo evolutivo delle tipologie e dei modelli artistici medievali. Ad opere legate alla colta ed estatica committenza benedettina, espressione di una cultura figurativa ancora ispirata al registro aulico dello stile romanico, si affiancheranno infatti croci dipinte e paliotti con “Storie di san Francesco”, che testimoniano l’influenza esercitata dagli ordini mendicanti – quello francescano in primis – sulle arti visive.
Sotto lo stimolo della spiritualità francescana, tutta volta ad una meditazione incentrata sugli aspetti più drammatici e fisicamente tangibili della Passione di Cristo, anche il linguaggio formale assume, infatti, tratti realistici ed espressivi, come è dato riscontrare in molti capolavori della scuola umbra due e trecentesca.
Evidente risulta, dunque, la centralità del territorio umbro che, soprattutto grazie al grande e vitale cantiere della Basilica di San Francesco ad Assisi, vide confluire al suo interno una molteplice varietà di linguaggi artistici internazionali – dalla lingua franca d’oltralpe agli stilemi importati da maestranze inglesi e nordiche che furono impegnate nella realizzazione della chiesa superiore -, favorendo così anche l’arricchimento e la diversificazione della produzione artistica locale. Il catalogo, pubblicato da Skira (pp. 232, euro 38), fornisce utili notizie sulla vita e l’opera di Iacopone puntando soprattutto sulle fonti agiografiche e storico-letterarie, ma non trascura di dipingere un accurato affresco del ricco contesto storico e artistico in cui il frate si trovò immerso e che rappresenta un momento d’oro non solo per l’Umbria, ma per tutta l’Italia medievale.
Elena Percivaldi
inserito su www.storiainrete.com il 13 maggio 2009