di Fabio Figara per Storia in Rete del 3 maggio 2024
«Il Signore disse ad Abramo: Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Terra Santa, promessa e benedetta da Dio, ma lacerata e insanguinata dai conflitti degli uomini per millenni. Un lembo di terra incastonato tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano sempre al centro di battaglie e rivendicazioni religiose, politiche e militari come, purtroppo, vediamo ancora oggi. L’attentato del 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo, in ordine cronologico, di una serie di efferatezze che hanno innescato altri conflitti, caratterizzando la storia di questa zona negli ultimi cento anni. Ma come è iniziato questo vortice di violenza?
L’idea di una nazione ebraica iniziò a concretizzarsi alla fine del XIX secolo, con la pubblicazione di un libro: Lo Stato ebraico (Der Judenstaat), opera dello scrittore e politico ungherese Theodor Herzl. Preoccupato per il riemergere dell’antisemitismo in Europa (sono proprio gli anni del caso Dreyfus, l’ufficiale ebreo d’artiglieria accusato in Francia di spionaggio), Herzl teorizzò la creazione e la costituzione di un’entità territoriale autodeterminata dove potessero vivere in pace tutti gli ebrei del mondo, ricongiungendosi alle poche e piccole comunità ancora abitanti in Palestina. Una vera e propria utopia che, tuttavia, raccolse importanti consensi, tanto che nel 1897 lo stesso Herzl diresse a Basilea il primo Congresso mondiale sionista. Nacque ciò che viene definito il movimento sionista o Sionismo, che porterà avanti questo progetto con lo slogan “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Da questo primo incontro internazionale, ne scaturirono una serie: al centro sempre la teorizzazione e lo studio della reale possibilità di tornare nella Terra dei Padri, ponendo fine a quasi due millenni di diaspora, la dispersione degli ebrei a seguito dell’assedio e della conquista di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito nel 70 d. C. Un lungo periodo nel corso del quale varie generazioni hanno conosciuto spesso violenze, segregazioni e oppressioni ovunque. Successivamente, grazie ai congressi periodici, iniziò una vera e propria raccolta fondi: era necessario avere i capitali per acquistare la terra dai grandi possidenti arabi, i quali vendettero volentieri – e ad alto prezzo – appezzamenti ritenuti di scarto e incolti.
Eppure il sogno doveva realizzarsi, a qualunque costo: in Palestina (termine derivato dall’antico popolo dei Filistei, in ebraico Pelishtim, in arabo al-Filastiniyyun), si formarono così i primi insediamenti agricoli gestiti sul modello socialista, i kibbutz; gli importanti investimenti portarono i primi frutti grazie all’organizzazione del lavoro nei campi, e le terre acquistate produssero nuovamente, portando alla creazione di un nuovo flusso economico. Questo sviluppo comporterà sempre nuove immigrazioni con conseguente aumento demografico fino allo scoppio della Seconda Guerra mondiale: inizialmente di molti ebrei dalla Russia e dall’Europa orientale (a causa dei pogrom), poi di popoli arabi dai paesi confinanti e, successivamente a causa del Nazismo, da tutta Europa.
Ma prima, alla fine della Grande Guerra, con la caduta e lo smembramento dell’Impero ottomano, al momento della spartizione dei possedimenti ad opera delle potenze vincitrici, la Palestina (Cisgiordania) passò sotto l’Impero britannico nel 1920: un’annessione che venne accolta con entusiasmo in quanto, tre anni prima, il ministro degli esteri britannico Arthur James Balfour si era espresso favorevolmente nei confronti della creazione di uno Stato ebraico in quella terra, ma anche verso l’indipendenza dei popoli arabi. Ma la dottrina di Balfour non ebbe seguito con i successivi governi britannici.
Nel decennio prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, si registrarono varie rivolte e violenze tra ebrei e palestinesi, dovute ad un’inevitabile modifica negli equilibri economici e politici nella regione, ma anche ad un’insufficiente capacità gestionale da parte degli inglesi. A parte l’orribile massacro e l’espulsione di ebrei da Hebron nel 1929, la prima preoccupante rivolta contro di loro scoppiò nel 1936 a Gerusalemme: il Gran Muftì Haj Amin al-Husseini, massima carica religiosa islamica sunnita, antisemita e amico di Hitler, destabilizzò dapprima la situazione con scioperi e ribellioni, poi fomentò gli estremisti, i quali perseguirono la via degli attentati. L’odio era rivolto anche verso il governo britannico, accusato di essere troppo permissivo nei confronti dell’immigrazione ebrea. Anche se Haj Amin divenne un ricercato – fuggì in Libano – per evitare altri futuri problemi, le autorità britanniche, ignorando i principi di Balfour, nel 1939 promulgarono il Libro Bianco, con cui limitarono le possibilità di immigrazioni di ebrei: purtroppo questa scelta impedirà a molti di loro di scampare alla Shoah.
Terminata la guerra, nel 1946 nuove tensioni interessarono la Terra Santa: le navi cariche di profughi provenienti dai campi di concentramento nazisti, e sopravvissuti, vennero respinte: molti ebrei furono addirittura rinchiusi in campi di detenzione inglesi. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il gruppo paramilitare sionista Irgun Zwai Leumi, nato nel 1931, organizzò così un attentato al quartier generale britannico, che causò 90 morti. Nel 1947 Londra comprese che la situazione rischiava di degenerare, e si ritirò, affidando la questione all’ONU.
Fu a questo punto che emerse l’idea di creare due Stati indipendenti, proposta che nel corso di decenni sarà oggetto più volte di dibattito, di accordi e di risoluzioni delle Nazioni Unite, decisioni quasi sempre non considerate o rispettate solo in parte e per un certo periodo di tempo: l’intento era di decretare la fine di scontri violenti e di guerre intestine, e tracciare confini stabili per due entità autonome che, ad oggi, contano milioni di abitanti.
Il primo tentativo fu effettuato proprio con il ritiro delle autorità britanniche: riprendendo un precedente progetto della Società delle Nazioni, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votò per l’adozione della risoluzione n. 181 sul “governo futuro della Palestina”, comprendente la costituzione di uno Stato palestinese e di uno Stato ebraico con un’unione economica per tutta la regione, e un regime internazionale speciale per Gerusalemme, che sarebbe stata gestita direttamente dall’ONU. La proposta fu approvata dalla maggioranza: Israele (dal nome ripreso dall’antichità e dalle Sacre Scritture, ovvero il nuovo nome che Dio dà a Giacobbe nel Libro della Genesi 32, 23-33, alla fine della misteriosa lotta con uno sconosciuto – che altri non è se non il Signore stesso – e che significa “Dio è forte”) ottenne poco più del 50% del territorio (deserto del Negev, fascia costiera centro-nord e la Galilea orientale), e quello che sarebbe dovuto divenire uno Stato arabo, il restante (parte centrale della Palestina, Samaria, Galilea occidentale, Striscia di Gaza e la terra tra il Negev e il Sinai). Una spartizione piuttosto complicata, che non venne accettata dagli Stati arabi. All’inizio del 1948 scoppiarono così nuove rivolte e massacri. Si formò un vero e proprio esercito di liberazione arabo che, sostenuto dalla Lega Araba, attaccò Israele arrivando ad isolare addirittura Gerusalemme. In poco tempo l’esercito israeliano, l’Haganah, riuscì comunque a recuperare il controllo di tutti i luoghi aggrediti. Proseguirono attacchi e violenze efferate da entrambe le parti (come l’eccidio nel villaggio arabo di Deir Yassin ad opera di organizzazioni paramilitari sioniste). Ma la vera guerra era alle porte.
In questo clima di terrore, David Grün, ebreo polacco emigrato in Palestina, dove assunse il cognome di Ben Gurion, il 14 maggio 1948 proclamò la nascita ufficiale dello Stato di Israele. Fondatore del sindacato dei lavoratori Histadrut e del partito dei lavoratori Mapai, primo ministro della nuova realtà, era ben consapevole – insieme agli altri firmatari – che la dichiarazione di indipendenza dell’unica repubblica parlamentare del Medio Oriente avrebbe portato inevitabilmente ad un conflitto armato, pur avendo l’approvazione di USA e URSS.
Alla firma della dichiarazione, gli eserciti di Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita mossero infatti guerra immediatamente per cancellare definitivamente Israele. Nessun Paese accorse in suo aiuto. Eppure vinse. Fuggendo dall’Europa tra le due guerre mondiali, erano giunti in Israele molti laureati, tecnici e specialisti di ogni settore, linfa vitale per riorganizzare una società e un apparato militare in grado di contrastare potenti nemici dai quali erano – e sono tuttora – circondati. Tra la fine dell’anno e la prima parte del successivo si concluse così la prima guerra arabo-israeliana, con migliaia di morti e l’inizio della nakba (catastrofe), l’esodo di migliaia di palestinesi arabi e cristiani da Israele (che, con il conflitto, era riuscito ad implementare i propri possedimenti), cacciati o in fuga dagli orrori della guerra, con l’installazione dei primi campi profughi, problema che perdura ancora oggi.
Dopo varie vicissitudini, guerre e accordi che interessarono anche le due super potenze durante la Guerra Fredda, uno spiraglio per la soluzione “due popoli, due stati” si aprirà solo con Ariel Sharon nel 2005. Colpito da ictus, purtroppo non potrà portare avanti questo progetto. L’anno successivo, Hamas vincerà le elezioni a Gaza e in Cisgiordania. L’era Netanyahu non proseguirà in questa prospettiva: gli attentati contro Israele e gli attacchi anti-Hamas della Striscia di Gaza continueranno, inaugurando nuovi periodi di terrore. E in questi giorni, mentre il conflitto vede coinvolto anche l’Iran, e al Consiglio di Sicurezza si discute per il voto a favore dell’adesione a pieno titolo dei palestinesi alle Nazioni Unite, la spirale d’odio, di sangue e di violenza non accenna a fermarsi…