Dall’impresa di Buccari a Fiume, l’amicizia con D’Annunzio, l’incontro con Mussolini a Palazzo Venezia, i ricordi di Nitti, Orlando e l’ultimo saluto del padre, Luigi Rizzo: “Sento ancora la sua mano”. La figlia dell’eroe di guerra si racconta in una esclusiva intervista
di Federico Bini da Il Giornale del 26 giugno 2023
Entrare nel palazzo della famiglia Rizzo Bonaccorsi è come entrare in un romanzo di De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Capuana; si respira ancora oggi quel fascino, quell’atmosfera del realismo siciliano in cui si mescolano i colori delle tappezzerie e porcellane, i profumi dei fiori e il dolce sapore del mandorlo. La contessa Maria Guglielmina Rizzo di Grado e Premuda è la figlia centenaria dell’eroe di guerra Luigi. Uno dei più grandi italiani del 1900, conosciutissimo per la “Beffa di Buccari” e l’impresa di Fiume con D’Annunzio e Ciano. Una nota: la contessa ha 100 anni ma ne dimostra venti di meno e in questo palazzo ha vissuto per alcuni anni Federico De Roberto.
Contessa, come ci si sente alla soglia dei cento anni?
“Mi meraviglio, mi viene da ridere, è una cosa strana. Ne ho passate di cotte e di crude”.
Una vita lunga.
“Ricca di avvenimenti e personaggi. E se mi guardo indietro mi sembra che sia volata”.
Il mare la vostra casa?
“Sì. Abbiamo vissuto a Genova – dove sono nata –, Milazzo, Grado, Trieste etc. Mio padre proveniva da una famiglia di naviganti. Avevano le loro navi e giravano il mondo, dalla Russia all’Inghilterra. A Odessa caricavano il grano e lì portavano vino e olio”.
Il primo ricordo di suo papà?
“Avrò avuto quattro anni…”
Com’era?
“Affettuoso, innovatore e umile. Un grande lavoratore, sapeva fare tutto e non perdeva un minuto della sua vita”.
Cosa intende per “innovatore”?
“Era attratto da tutto ciò che era moderno. Quando arrivò la prima pentola a pressione mia madre era terrorizzata e l’aveva nascosta. Noi ce ne siamo accorti e l’abbiamo tirata fuori… e poi la radio, i grammofoni”.
Fu un’educazione rigida?
“No. Però si preoccupava molto per noi figli. Voleva che studiassimo e ci mandò in Svizzera. Io imparai bene le lingue perché riteneva che fossero molto utili. Aveva ragione!”.
Fu interventista nella Prima guerra mondiale?
“No. Fece semplicemente il suo dovere. Bisogna sfatare il mito che fosse a favore delle guerre. La via maestra è sempre la diplomazia e mio fratello Luigi Giacomo era propenso ad iniziare gli studi per la carriera diplomatica agevolato anche da un’ottima conoscenza delle lingue – voluta da mio papà”.
Il giudizio sulla classe dirigente liberale?
“Non era molto positivo. Lui partecipava per senso del dovere”.
Qual era il suo pensiero politico?
“Difficile saperlo interpretare. Però venendo dalla classe marittima era incline più che al liberale al sindacalismo…”.
Come visse suo padre lo scoppio della “grande guerra”?
“Era giovanissimo. Avendo i gradi di Capitano di Lungo Corso lo chiamarono in Marina come sottotenente di vascello in Sardegna a La Maddalena dove c’era il centro di reclutamento”.
Perché dopo fu mandato a Grado?
“Stavano sperimentando dei mezzi tattici tra cui il Motoscafo Armato SVAN (MAS). E lì conobbe e si fidanzò con mia mamma che sposò a Grado il 28 ottobre del 1917, il giorno dopo Caporetto, sotto un intenso bombardamento nemico a poca distanza. Finita la funzione si separarono poiché mio padre dovette trasferire i mezzi da Grado, caduta al nemico a Venezia”.
È sbagliato definire Luigi Rizzo un “avventuriero”?
“Sì. Non era avventato, era molto coraggioso e seguiva una regola ben precisa: non mettere mai a rischio le vite delle persone che stavano con lui”.
E poi arrivò la fama con l’impresa di Buccari.
“Pensare che lui era contrariato. Ottenne la medaglia d’argento al valor militare ma a D’Annunzio disse: “Vedi, i veri fregati siamo noi perché non abbiamo trovato le navi e abbiamo rischiato. Siamo tornati per un vero miracolo!”.”
Quando conobbe Costanzo Ciano?
“Durate la Prima guerra mondiale a Venezia. Ciano era diventato famoso per alcune azioni straordinarie. Fu lui – e poi D’Annunzio – a volere fortemente Buccari. Mio papà non era d’accordo mentre Ciano era sicuro: “Ci sono due navi da guerra austriache!”. Decisero di andare. E quando arrivarono trovarono solo un mercantile. Mio papà a quel punto disse: “Abbiamo messo a rischio la vita dei nostri marinai!”.”
Il 10 dicembre 1917 forzato il porto di Trieste affondò la corazzata Wien. Cosa le raccontò di quella celebre impresa?
“Fu un’azione molto pericolosa anche se ben a lungo studiata. Ci fu un marinaio che stette in acqua con la muta (di quel tempo!) e impiegò alcune ore a tagliare con una sega a mano i grossi cavi di sbarramento in acciaio”.
Però fu la svolta dopo la tragedia e disfatta di Caporetto.
“Dette nuovo entusiasmo alle truppe, insieme al cambio dei vertici militari con l’entrata in scena di Diaz”.
Perché decise di partecipare alla conquista di Fiume?
“Era molto amico di D’Annunzio, che lo stimava e ne aveva un’alta considerazione, ma fino all’ultimo cercò di dissuaderli. Ebbe un ruolo importante: Comandante delle Forze fiumane”.
Ha qualche aneddoto sul “Vate”?
“Quando era in preda alla furia e dovevano cercare di placarlo chiamavano mio papà. In molti usarono D’Annunzio per scalare diverse attività sociali, Luigi Rizzo mai! E ad un certo punto non riuscì più a far capire la ragion di Stato per la quale bisognava obbedire agli ordini italiani e fermarsi nell’avventura di Fiume”.
Quando capì che era finita?
“Nel 1920. O andavano via o li avrebbero cacciati con le navi militari italiane. Provò in tutti i modi ad aiutare D’Annunzio tirandolo fuori dalle sabbie mobili in cui si era cacciato ma non ci fu niente da fare. Decise di scrivergli una lettera di perdono in cui gli disse che gli sarebbe sempre stato vicino e fedele ma non poteva obbligarlo a veder sfasciare una cosa che avevano creato con tanto ardore. Fece ritorno a Genova”.
E D’Annunzio come reagì?
“Con mio papà ebbe affetto per tutta la vita. Ci fu sempre una corrispondenza intensa e volle bene a entrambi i miei genitori. Ma c’è un altro legame che vorrei ricordare”.
Prego.
“Mia mamma ebbe due sorelle che sposarono i fratelli Manzutto. Uno di loro era Romano, aiutante di volo di D’Annunzio”.
Perché non scese mai in politica?
“A Milazzo fu candidato come deputato nel 1919 e 1921. Ma i politici locali lo usarono per il cognome e gli ‘fregarono’ i voti. Credo fossero liste liberal-democratiche. Venne presentato da D’Annunzio a Fiume dove a suffragio venne eletto deputato. La sua elezione non venne all’epoca convalidata alla Camera e solo, come una beffa, venne ratificata nel 1927”.
Con l’ascesa di Mussolini si convertì al fascismo?
“Il fascismo lo tenne sempre molto distante, si iscrisse al PNF come tutti. E non sarebbe sicuramente diventato presidente dei Cantieri dell’Adriatico se non aderiva. C’è una sola foto in camicia nera!”.
Ebbe modo di conoscere Mussolini?
“Sì e molto bene. Mussolini già quando era a “L’Avanti”, l’11-12 giugno 1918, andò ad intervistarlo dopo l’affondamento della Santo Stefano, a Premuda, davanti alle coste dalmate; fece anticamera nel comando marittimo di Ancona per incontrarlo ed intervistarlo. Dormì molte ore su una cassapanca. Vedeva in mio papà una persona di livello, d’ispirazione”.
Lei ricorda qualche episodio?
“Era venuto a Messina, ci furono grandi preparativi e disse: “La Sicilia è cent’anni indietro rispetto al Nord del paese”.
L’entrata in guerra dell’Italia come era percepita nell’establishment fascista?
“Quando mio papà ebbe notizia di questi movimenti chiese appuntamento a Mussolini a Palazzo Venezia come presidente dei Cantieri Navali dell’Adriatico. Doveva tutelare le navi fuori dai porti”.
Cosa gli disse il duce?
“Riferendosi alla Francia: “Non andiamo a uccidere uno che sta morendo e non ci sarà nessuna guerra”.
Ci credette?
“Non tanto. Mussolini era un abile politico, capace di cambiare a seconda della persona che aveva davanti. Fu scendendo le scale del Palazzo che ebbe la prova che sarebbe scoppiata la guerra. Incontrando un gruppo di gerarchi, Balbo gli disse: “Ecco qui l’affondatore! Rizzo, prendi le navi e falle andare subito nei porti!”. Io lo andai a prendere a Brignole in stazione di ritorno da Roma e aveva il volto sconcertato. Mi domandò: “Giorgio e Giacomo dove sono?”. Due giorni dopo ci fu la dichiarazione di guerra”.
Notò qualcosa di particolare in quell’incontro che cambiò per sempre la storia d’Italia (e non solo)?
“Mio papà ebbe l’impressione che Mussolini fosse combattuto, lo stavano come pressando e alla fine cedette”.
Quali rapporti aveva con Balbo?
“Non si amarono mai. L’idea che un uomo della Sicilia fosse così ben voluto ovunque lo infastidiva”.
La sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale subì la perdita di Giorgio.
“La morte di mio fratello – 16 settembre 1943 – fu un dolore enorme per tutti”.
Come avvenne?
“Risalita l’Italia da Trapani a Bocca di Magra con il MAS 531, lì fu raggiunto dalla notizia dell’armistizio. Nel cantiere ligure, dove il MAS si era dovuto fermare per avaria, raccolse i documenti che riteneva sensibili perché si sapeva che sarebbero arrivati i tedeschi… Ricevuto l’ordine di ripiegare verso Sud fece tappa a Portoferraio. Qui vide due MAS in avaria e si fermò per cercare di ripararne almeno uno e dirigere a Sud. Trovata la benzina per i rifornimenti, la mattina del 16 settembre, mentre stava parlando con un altro ufficiale di marina per prepararsi a partire, il porto subì l’attacco di bombardieri tedeschi Stukas. Alcune bombe colpirono dei fabbricati che caddero su di loro. Il suo corpo, insieme ad altri, vennero a galla nel porto di Portoferraio, dopo tre giorni”.
E come visse quel momento?
“Potrei dire quasi come un “tradimento”. Partì da Trieste e andò all’Isola d’Elba con una bara di zinco sul tetto della macchina. Ma in quella circostanza non fu possibile trovare il corpo poiché era stato seppellito in una fossa comune. Solo dopo, nel 1945 si ebbe la prova del riconoscimento del corpo del povero Giorgio; sulle mutandine lessero le iniziali “G.R.”. La guerra non ha vinti!”.
Durante il conflitto non ebbe però incarichi di grande rilievo nonostante la sua fama ed esperienza.
“Allo scoppio del conflitto chiese di essere richiamato in servizio nel Grado di Ammiraglio di Divisione, ma senza assegni, perché servire la Patria è un onore, non un lavoro. La Marina gli affidò, presso il Comando di Marisicilia in Messina, il Comando della lotta ai sommergibili nel Canale di Sicilia, incarico di secondo piano per i limitati mezzi navali assegnati. La scena del 1941 è emblematica. Un aeroplano rientrato a Messina segnalò dei fili di fumo e mio padre voleva mandare un mezzo per investigare. La riposta fu “no”. Da Roma l’ordine era che la benzina scarseggiava. Lui si ribellò, ed in preda a rabbia e rassegnazione volarono parole grosse tra lui ed i vertici al comando, davanti a più di cinquecento marinai ammutoliti. Si trappò i gradi della divisa, lanciò il berretto e gridò: “Non si ammazzano così i figli!”. Chiese e ottenne di essere messo in congedo. Così concluse la sua storia in Marina. E tornò a dirigere i Cantieri Navali dell’Adriatico, a Trieste”.
Nel 1944 ci fu l’arresto.
“Rifiutò di collaborare con i tedeschi. Nei due soggiorni obbligati in Austria e in Baviera incontrammo Vittorio Emanuele Orlando, Irene e Anna di Danimarca, André François-Poncet, Amedeo di Savoia, Raymond De Becker, Francesco Saverio Nitti…”.
Nitti?
“Sì. Poverino, aveva problemi grossissimi ai piedi. Lui con i Savoia doveva essere “indifferente”, invece quando passavano le duchesse d’Aosta porgeva il saluto”.
Quando viveva a Milazzo come passava le giornate?
“Si alzava alle quattro e iniziava a cucinare i sughi, le cose… andava in paese a fare spesa con il Mosquito. E quando lo vedevano arrivare lo salutavano dicendo “ammiraglio Rizzo!”.
Ci può raccontare un aneddoto?
“Durante la Seconda guerra mondiale non potendo resistere alla passione per la pesca e nonostante il coprifuoco usciva in barca con un aiutante. Pescava i totani con un piccolo lume a petrolio. Una sera fu avvertita la Marina che intervenne con una piccola motovedetta. Fu l’unica volta che tirò fuori i gradi: “…Come mi chiamo? Io sono l’ammiraglio Rizzo! Lo sa che sono qui da più di due ore! Avrei potuto porre delle mine sull’intera rada di Milazzo”. L’attendente tremava dalla paura”. (ride).
È vero che Raffaele Mattioli aveva molta stima di lui?
“Quando cadde nell’oblio dopo il ’45 due persone di spessore lo aiutarono e lo cercarono: il prof. Valletta e il banchiere Mattioli. A loro su sua disposizione testamentaria lasciò in eredità un orologio d’oro”.
Come fu accolta la sua morte?
“Ci fu grande commozione. A Roma in Santa Maria degli Angeli vennero celebrati i funerali di Stato. Ad un certo punto entrò un signore “canuto”, era Vittorio Emanuele Orlando. Poi la salma fu trasferita a Milazzo e portata in spalla come un santo tra centinaia di bandiere”.
L’ultima immagine di suo papà?
“A Villa Margherita a Roma dove fu operato al tumore. Ero incinta di mia figlia Luisa. Mi mandò a chiamare, aveva capito che stava morendo. Mi prese la mano dolcemente, me la baciò e mi invitò a rientrare a Milazzo. Sento ancora questa sua mano…”.
Dalla sua finestra si vede il mare.
“Lo abbiamo nel sangue”.
Si offendeva se lo chiamavano marinaio?
“No. Sarebbe stato onoratissimo”.
Come definirebbe Luigi Rizzo?
“Un servitore dello Stato con un alto senso del dovere. E aggiungerei pure, coraggioso”.