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Inca, il suicidio di una civiltà in mostra al Quai Branly di Parigi

È il tramonto del 16 novembre 1532. Atahualpa, l’imperatore inca, sta entrando nella piazza di Cajamarca. È uno dei momenti della storia in cui tutto si condensa e si rapprende. I tempi lunghi dei cicli economici, delle mutazioni antropologiche, tecnologiche, religiose e politiche sono soggetti all’arbitrio e ai capricci dei singoli.

Antonio Aimi da la Stampa del 24 giugno 2015 

Atahualpa è seduto su una lettiga con le aste rivestite d’argento, indossa un collare con grandi smeraldi e la mascapaicha, la corona di lana, fili d’oro e rarissime penne che rappresenta il potere del capo supremo dell’impero inca. E del più grande impero dell’America precolombiana, Atahualpa è veramente il signore incontrastato, perché da poche settimane i suoi generali hanno sconfitto e catturato Huascar, il fratellastro. È preceduto da trecento giovani che cantano e puliscono il terreno con le mani e da un migliaio di soldati in uniforme da parata, accanto a lui si trovano i più alti dignitari dell’impero.

TONNELLATE DI ORO
Arrivato al centro della piazza, Atahualpa fa fermare la lettiga, portata da ottanta dignitari che indossano tuniche azzurre. Si chiede dove siano gli strani guerrieri barbuti che hanno tanto insistito per invitarlo in quella piazza. Poi si avvicinano un uomo vestito con una lunga tunica bianca e un ragazzino.

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L’uomo con la tunica bianca, tramite l’interprete, il ragazzino, comincia a dirgli cose che non capisce e gli porge una cosa che non ha mai visto. Il resto è noto: Atahualpa getta per terra quell’oggetto sconosciuto, una Bibbia, e il domenicano Vicente de Valverde corre via gridando. Subito dopo attorno all’imperatore si scatena l’inferno.

Ed è noto anche il seguito della storia, la cattura di Atahualpa, la promessa della libertà in cambio di una stanza piena di oggetti d’oro e d’argento, il pagamento del riscatto (5,7 tonnellate d’oro e 11,89 tonnellate d’argento, che oggi, tanto per avere un ordine di grandezza, avrebbe un valore di oltre 180 milioni di euro) e l’uccisione dell’imperatore in violazione dei patti e delle stesse leggi spagnole.

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A questa nuova epica moderna, che ha plasmato la storia di gran parte dell’America meridionale, è dedicata la mostra che si è inaugurata ieri al Musée du Quai Branly di Parigi. L’esposizione, come ci spiega la curatrice Paz Núñez Regueiro, «vuole mostrare come si percepirono gli Spagnoli e gli Inca, come dialogarono e si affrontarono, e come entrambi i campi cercarono di allearsi con diverse fazioni per affermare il loro potere». Lo fa presentando circa 120 reperti (armi, terrecotte, rarissime tuniche dell’élite incaica, stampe, oggetti di pietra, codici del XVI e XVII secolo) che offrono un interessantissimo squarcio sulla cultura inca.

LA STORIA FATTA CON I SE
Inevitabilmente la mostra ripropone una questione che da quasi cinque secoli intriga tutti coloro che conoscono la storia della Conquista del Perù: come fu possibile che 168 soldati (106 fanti e 62 cavalieri) conquistassero un impero efficiente e ben organizzato di almeno 10-12 milioni di persone?

E inevitabilmente le risposte sono sempre le solite: la superiorità delle armi europee, tecniche di guerra volte all’annientamento del nemico, la defezione delle etnie da poco conquistate dagli Inca (l’impero non aveva più di 92 anni), la guerra civile tra Atahualpa e Huascar, le profonde, successive divisioni all’interno del lignaggio reale di Cuzco. Certo, tutto è stato detto e scritto in migliaia di libri. Rimangono, però, due domande impertinenti che le pubblicazioni scientifiche non riescono a cancellare.

1) A Cajamarca il destino di Atahualpa era segnato, o gli avvenimenti avrebbero potuto prendere un’altra piega?

2) Se a Cajamarca gli avvenimenti avessero preso un’altra piega, la conquista del Perù, al di là degli accidenti dell’histoire événementielle, era comunque una tappa obbligata, come ad esempio la colonizzazione dell’Africa del XIX secolo, oppure la storia dell’America sarebbe stata diversa?

I REALI RAPPORTI DI FORZA
Domande del genere, ovviamente, sono schiacciate dal vecchio detto che «la storia non si fa con i se». Cosa giustissima, ovviamente; tuttavia, se si osserva il dettaglio della situazione sul terreno, si possono osservare lucidamente i reali rapporti di forza e dare così una possibile risposta alla prima domanda, esattamente come si fa nelle analisi delle battaglie del passato.

Per farlo occorre tenere presente alcuni dati:

1) per quanto la maggior parte del suo esercito fosse altrove e per quanto le stime dei cronisti siano sempre eccessive, a Cajamarca Atahualpa aveva almeno 20.000 soldati;

2) non era assolutamente intimorito dagli Spagnoli, anzi aveva mandato spie per verificare la pericolosità, ad esempio, dei cavalli;

3) i racconti che gli stranieri fossero visti come delle divinità sono bufale inventate molto tempo dopo e sono smentite da tutti i testimoni oculari;

4) aveva certamente intenzioni ostili, documentate, forse, anche dagli strani regali mandati a Pizarro;

5) per quanto la salita delle Ande non fosse particolarmente difficile, esponeva il piccolo esercito invasore a pericoli di cui gli stessi spagnoli erano ben consapevoli (divisione tra l’avanguardia e il resto del magro esercito di Pizarro, non conoscenza del terreno ecc.).

Da questi dati emerge che i rapporti di forza erano a favore degli Inca in modo nettissimo e che sarebbe stato relativamente facile schiacciare il piccolo esercito di Pizarro mentre saliva verso le Ande.

LA HYBRIS DI ATAHUALPA
Come mai, quindi, Atahualpa lo lasciò arrivare fino a Cajamarca e andò a cacciarsi nella trappola? Probabilmente fu accecato dalla hybris e dalla presunzione che, in ogni caso, quei guerrieri barbuti non avrebbero rappresentato un vero pericolo.

Dare risposte alla seconda domanda senza cadere nella fantastoria è, invece, molto difficile. Tuttavia – ricordando che ogni ipotesi, pur utile a capire i percorsi al contempo razionali e irrazionali della storia, sarà sempre priva di ogni riscontro fattuale – si può ragionevolmente ipotizzare che se lo sparuto drappello di conquistadores fosse stato sbaragliato, l’impero inca avrebbe potuto imboccare con successo la strada di un processo di occidentalizzazione dall’alto analogo a quello sperimentato dal Giappone nella seconda metà del XIX secolo.

Lo fanno pensare le caratteristiche geografiche ed ecologiche dell’impero, la debolezza strutturale degli insediamenti spagnoli nell’America del XVI secolo, la capacità di copiare e utilizzare la tecnologia militare e civile europea dimostrata dagli Inca nelle guerre successive, l’efficienza di una società caratterizzata dal modo di produzione asiatico. Ed è evidente che, nel caso di questo scenario, un impero ben organizzato, «padrone» della maggior parte delle miniere d’argento allora conosciute, avrebbe egemonizzato tutta l’America meridionale e avrebbe giocato un ruolo di primo piano nella storia del mondo.

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