di Paolo Soave dal Giornale di Storia del 5 novembre 2022
A distanza di quattro anni dalla biografia su Galeazzo Ciano (Salerno Editrice) Eugenio Di Rienzo propone un nuovo lavoro monumentale, D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume, edito da Rubbettino. Innanzitutto non può passare inosservata la capacità dell’autore di sfoggiare un approccio storiografico ampio, articolato, che rilegge temi ai quali conferisce maggiore ricchezza, organicità e un taglio critico che riequilibra interpretazioni talvolta semplicistiche e discordanti. Chi oggi coltivi le scienze storiche e sperimenti la quotidiana difficoltà di condurre studi articolati e approfonditi, fra le pesantezze burocratiche che ormai ingessano la vita accademica e le ferree leggi dell’editoria, troverà sempre più rari e preziosi i lavori di Eugenio Di Rienzo, storico e intellettuale.
Come nel precedente volume su Ciano, Di Rienzo esamina un tornante cruciale e assai complesso della storia d’Italia, la transizione del primo dopoguerra, strettamente connessa a un quadro internazionale altrettanto precario, fra un vecchio ordine eurocentrico che non passava e un nuovo assetto wilsoniano alquanto acerbo. Il contesto nazionale è quello del disfacimento delle istituzioni liberali, accelerato dal fardello della grande guerra, nella quale parte della classe dirigente aveva giocato il proprio destino e soprattutto quello della nazione. Già in questo, come noto, il Vate aveva avuto un ruolo, contribuendo a orientare l’opinione pubblica all’ingresso nel conflitto. Durante le ostilità D’Annunzio vide rafforzato questo ruolo nazionale e già nell’ottobre 1918, un anno dopo Caporetto e nella prospettiva di Vittorio Veneto, egli coniò sulle colonne del Corriere della Sera la locuzione “vittoria mutilata”.
Intanto a gennaio il presidente americano Wilson aveva illustrato il proprio programma internazionale, i Quattordici punti volti a democratizzare le relazioni internazionali, e D’Annunzio aveva compreso quale rischio si profilasse per l’Italia, entrata in guerra per cogliere la propria, attesa grandezza in un senso storico, politico e culturale rigorosamente europeo. D’Annunzio esprimeva con enfasi i timori degli interventisti e dello stesso Sonnino. Pertanto il fiumanesimo ebbe premesse lontane, nacque da quelle forze che vennero sprigionate dalla guerra e che in seguito risultarono non più controllabili, le forze del disfacimento liberale. D’Annunzio fu il campione ma non il leader di quelle forze, che non potevano essere contenute né incanalate esclusivamente nell’alveo istituzionale.
Come rileva Di Rienzo, un punto di rottura fra l’Italia liberale e il nazionalismo frustrato fu il tentativo di Nitti di rientrare nei ranghi, nell’auspicabile “normalità”. La decisione di smobilitare le forze armate portò allo scoperto le pulsioni dell’ultima istituzione liberale, l’esercito, che fin dall’unificazione aveva avuto un ruolo preminente, basti pensare a Cadorna e al suo vezzo di scegliersi i ministri della Guerra. Di Rienzo analizza a fondo l’“Altro Stato”, popolato dalle schegge di istituzioni e poteri che decisero di sostenere D’Annunzio, quali ufficiali, politici, nazionalisti, diplomatici, industriali, massoni, che direttamente o indirettamente resero possibile l’esperienza fiumana. Un “Altro Stato” che non venne creato da D’Annunzio, ma che scaturì dallo Stato di guerra, per sua natura oltre le righe, ovvero oltre le istituzioni.
Questo contesto sgombra il campo, come rileva Di Rienzo, da alcune interpretazioni parziali o affrettate sul Vate: egli non fu un protofascista, piuttosto un nazionalista che agitò la bandiera della rivoluzione, per questo momentaneamente meritevole dell’interesse di Lenin, né avrebbe potuto essere un filobolscevico per l’impatto che il bolscevismo avrebbe avuto sull’Italia e sul suo discorso nazionalista. La carta del Carnaro fu soprattutto un’affascinante enunciazione da spendere in ambito internazionale, come tale capace di infastidire le diplomazie occidentali, a partire da quella facente capo al Foreign Office. Al centro della transizione postbellica e già post-liberale, egli stesso crocevia umano, fisico e intellettuale, D’Annunzio fu l’ispirato leader di un nazionalismo avventuroso, come tale bisognoso dello stato permanente di guerra per condurre la propria crociata, al punto da scagliarsi contro il wilsonismo quando questo si impose nella conferenza di pace di Parigi, seppur fra mille compromessi, come pietra tombale di quello slancio europeo che il comandante riteneva vitale per se stesso e per il paese.
Grande interesse riveste nel volume la Lega dei popoli oppressi, la contro-Società delle Nazioni promossa da D’Annunzio per ridestare la causa di quei popoli che erano stati traditi dai vincitori della guerra e avevano per questo perso anche la pace. Vediamo D’Annunzio tessere la tela di una “diplomazia mediatica”, come la definisce Di Rienzo, certo velleitaria ma anche per questo suggestiva, fatta di aperture ai bolscevichi, con un incontro con Cicerin, e di trattative con i nazionalisti egiziani. In questo disegno entrò perfino il Vaticano, estromesso dalla conferenza di Parigi. Si ricorderà in proposito l’incontro fra Wilson e Benedetto XV, che aveva osato articolare una proposta di pace incentrata sul diritto internazionale prima che il presidente americano presentasse i Quattordici punti.
Di Rienzo evidenzia come al centro degli strali dannunziani non vi fosse tanto il “Cagoia” Nitti, che in questo dramma in più atti rappresentò l’anello più debole, quanto Wilson e il suo “complotto di ladri e truffatori” che venne istituito con la fondazione della società ginevrina. D’Annunzio si mosse in ogni direzione: cercò il riconoscimento del polo rivoluzionario più riconosciuto al mondo, quello guidato da Lenin, si schierò contro la repressione del regime di Bela Kun in Ungheria, ma non smarrì mai l’orientamento all’interesse italiano e in definitiva utilizzò la sua Lega come “un utensile ad uso balcanico”, ovvero per attentare, in pieno accordo con politici e militari, all’integrità del Regno dei serbi, croati e sloveni, così come raffreddò i rapporti con i nazionalisti egiziani, dai quali sarebbero potuti scaturire seri problemi coloniali in Libia. Un eretico della politica, pertanto, non certo un anarchico. Tutti i maggiori uomini politici italiani presero posizione, volenti o nolenti, su D’Annunzio e il fiumanesimo, quasi sempre alimentando ambiguità e complessità, ovvero cercando di trarne vantaggi.
In sostanza è stato forse Malaparte a ben inquadrare il rapporto, di natura funzionale, se non organica, fra D’Annunzio e le istituzioni, osservando che a seguito dell’impresa di Fiume il comandante era divenuto un fattore rilevante della politica estera italiana ma aveva perso il contatto con quella interna, dalla quale in ultima analisi dipendeva. In tal senso, il caso di Sforza appare particolarmente significativo: il ministro degli Esteri che inizialmente perseguì, sulle orme di Sonnino, il “Delenda Jugoslavia” fu con Giolitti il liquidatore del fiumanesimo, divenuto un intralcio alla normalizzazione dei rapporti con il Regno dei serbi, croati e sloveni. Sforza scrisse, infatti, a Giolitti che sarebbe stato opportuno far rilevare agli slavi di Fiume quanto dispotico fosse nei loro riguardi il campione del nazionalismo italiano.
La normalità impostasi a Rapallo, postbellica e post-retorica, segnò, così, la fine del protagonismo di D’Annunzio, tradito e rimpiazzato da Mussolini, orientato a quella politica di compromesso e di governo che lo aveva portato, dopo il sostegno inizialmente accordato all’impresa fiumana, a scrivere sul Popolo d’Italia, non senza suscitare sdegno nei nazionalisti, che l’accordo di Rapallo andava accolto con favore.
A dimostrazione della complessità dannunziana va ricordato che egli aveva cercato da Fiume anche il consiglio di un politico ormai lontano dalle cariche istituzionali, Sonnino. All’ex ministro degli Esteri, ritiratosi dopo la conferenza di pace in un doloroso e autoimposto isolamento, una sorta di espiazione per il mancato conferimento al paese della condizione agognata, D’Annunzio inviò un proprio emissario, il tenente Lerda, a chieder consiglio sul da farsi. Lerda raccolse il suggerimento “né cedere, né eccedere, né contro gli jugoslavi, né tanto meno contro le truppe regie”.
Occorre rilevare come nel tardo 1919 quell’invito a una fermezza prudente fosse ormai quello di gran parte dell’Italia, intesa come classe dirigente, istituzioni, persino degli interventisti democratici che come Salvemini avevano inizialmente inneggiato a Wilson come al nuovo Mazzini per poi lamentarne il tradimento su Fiume. Il dialogo a distanza fra D’Annunzio e Sonnino, apparentemente un dettaglio, chiuse il cerchio: fu il confronto fra due personalità che avevano da posizioni e con modalità diverse avviato il paese alla guerra e si erano poi trovate nella scomoda posizione di doverla chiudere in modo soddisfacente. Lo aveva capito anche quella vecchia volpe di Lloyd George, che nel corso della conferenza di Parigi chiese a Orlando chi avrebbe potuto prendere il suo posto a guida dell’Italia in caso di rivoluzione. Non senza cinismo, al premier liberale sarebbe piaciuto vedere D’Annunzio al cospetto di Wilson. Poi egli aveva ammonito che l’unica prospettiva che l’Italia avrebbe dovuto temere per il dopoguerra era quella della privazione dell’aiuto economico americano, un’ipoteca che aveva fatto la sua comparsa ai tavoli negoziali di Parigi e che il Comandante aveva ben presente nelle sue invettive contro “l’Occidente che non ci ama”. Eugenio Di Rienzo ci restituisce di D’Annunzio, un profilo complesso, “impolitico” nel senso di Mann e di Croce, nauseato dalla politica convenzionale, dal parlamentarismo giolittiano, ma allo stesso tempo altamente politicizzato, in veste certamente ereticale, un interprete dei tempi, un protagonista indipendente ma non autonomo, capace di agitare quella “diplomazia di movimento” che non era certo una novità in Europa, ma pur sempre legato e condizionato da forze e processi molto più grandi del destino di un solo uomo e, in definitiva, di una Nazione.