L’assassinio del duca di Enghien è sol esso capace di oscurare la gloria di cento trionfi. Non son degni del culto de’ popoli quei tiranni che si gettano sotto i piè tutti i diritti; giacché, se per vanità, più assai che per onesti fini, essi fanno alcun bene ai popoli, gl’istupidiscono sotto il peso del loro orgoglioso potere” [1].
Dopo un decennio di rivoluzione, Bonaparte – entro la fine del 1799 – era saldamente al potere come capo della Repubblica francese e Primo console. La nazione anelava il ritorno alla stabilità e all’ordine, ma i governi delle altre potenze erano ansiosi di un equo risarcimento che bilanciasse le conquiste fatte dalla Francia. Se egli avesse acconsentito ad espandere in modo proporzionale i rispettivi territori, con buona plausibilità i seguenti quindici anni di guerra si sarebbero evitati.
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di Aliena da “Rinascita” dell’8 maggio 2012
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Al contrario, la febbre imperialista che esaltava Napoleone gli impedì di sentirsi appagato degli eccezionali successi della rivoluzione, proprio come un ostinato seduttore in cerca di ulteriori nuove avventure. Scrisse François de La Rochefoucauld: “Le passioni più violente ci concedono qualche volta delle pause, ma la vanità ci tormenta sempre” [2].
Inghilterra, Russia, Prussia e Austria – divise da rivalità e diffidenza – per tredici anni non riuscirono a stipulare una quadruplice alleanza contro la Francia: il Primo console sfruttò il loro antagonismo in molteplici occasioni, assicurandosi l’accordo con almeno una delle grandi potenze, mentre a turno sfidava le altre. Con nessuna delle alleate – prima la Prussia, poi la Russia ed infine l’Austria – mantenne pienamente le promesse fatte per indurle a sottomettersi agli obblighi che la loro posizione comportava. Viceversa, ciascuna di esse scoprì quanto sarebbe stato umiliante e deludente offrire lealtà a Bonaparte.
Con la minaccia francese di una totale annessione del Portogallo, la conclusione delle trattative di pace con l’Inghilterra fu accelerata: il trattato di Amiens, stipulato il 27 marzo 1802, stabilì la restituzione delle colonie conquistate dagli inglesi durante l’ultimo conflitto – ad eccezione di Trinidad, sottratta alla Spagna, e di Ceylon [oggi Srī Lanka], ex possedimento olandese – e l’evacuazione, entro tre mesi dalla ratifica, dell’isola di Malta. Quest’ultima sarebbe stata riconsegnata ai Cavalieri dell’Ordine di Malta.
Dimostrazioni popolari di giubilo echeggiarono da Parigi a Londra alla notizia della tregua raggiunta. Tuttavia, le mire universali e il diritto arrogato dalla Francia ad intervenire in ogni area – e in ogni questione – del globo, si rivelarono nella primavera del 1802, quando furono pubblicate le clausole del trattato definitivo. Napoleone ormai dominava i due più grandi fiumi del continente americano: la foce del Mississippi – grazie al possesso della Louisiana – e quella del Rio delle Amazzoni, tramite una parte della Guiana. Si trattava di una potenziale base per un impero coloniale caraibico. E i francesi – che nel 1795 avevano già ottenuto la metà spagnola di Haiti – ad Amiens si assicurarono pure il territorio di Tobago.
Una spedizione transalpina nel 1802 rivendicò la proprietà delle coste meridionali australiane, intitolandole Terre Napolèon. Al contempo, Bonaparte seguitava a interessarsi all’Impero Ottomano, del tutto intenzionato a incrementare il frenetico ritmo della propria ascesa – senza alcun senso della misura o scrupoli.
La più emblematica manifestazione di spietatezza del Console a vita si ebbe con la vicenda del rapimento e l’esecuzione del Duca d’Enghien, ossia Luigi-Antonio Enrico di Borbone-Condé (1772-1804) – figlio di Luisa d’Orléans, nonché ultimo discendente diretto dell’illustre casata d’origine capetingia.
Dopo la pace di Lunéville (febbraio 1801) e lo scioglimento dell’esercito controrivoluzionario – l’Armata degli émigrés, ov’era entrato come ufficiale di cavalleria – il nobile si ritirò nel castello di Ettenheim, presso il granducato di Baden: ergo, si trovava in territorio neutrale tedesco. Era convolato a nozze, in gran segreto, con la nipote del cardinale di Rohan: la principessa Carlotta di Rohan-Rochefort (1767-1841), della quale era perdutamente innamorato.
Il giovane Duca d’Enghien si trovava ancora nel suo letto, quando all’alba del 15 marzo 1804 venne tratto in arresto, per ordine di Bonaparte in persona, da un generale francese scortato da gendarmi del 26° reggimento dei Dragoni – che circondarono la residenza. A quel punto, Enghien fu trasferito a Strasburgo e in seguito tradotto nella fortezza di Vincennes.
Negli anni culminanti della rivoluzione, il timore di cospirazioni realiste – incoraggiate dal governo inglese – aveva scatenato una forma di psicosi in Francia, al punto tale che era stata decretata la pena di morte sia per gli émigrés rientrati in segreto nel Paese, sia per coloro che li ospitavano. Bonaparte subì 31 attentati, senza contare quelli di cui mai venne a conoscenza. Il 24 dicembre 1800 la congiura della “macchina infernale” – un carretto carico di barili stracolmi di esplosivo – per un soffio non l’aveva eliminato. Sul finire del 1803, la polizia segreta informò il Primo console – che riteneva sé medesimo quale ostacolo per i Borbone, e temeva di essere tolto di mezzo – dell’esistenza di un vasto complotto per rovesciarlo, in cui erano coinvolti anche gli ambasciatori inglesi in Baviera e nel Wüttemberg.
Quando Napoleone fece prendere il Duca, colse l’occasione per terrorizzare i propri nemici. E il colpo gli andò bene poiché da quel giorno cessò ogni congiura.
AVincennes si costituì un tribunale militare di sette ufficiali, presieduto dal gen. Pierre-Augustin Hulin (1758-1841): in alcun modo fu possibile provare il coinvolgimento del Duca nel complotto. Nonostante ciò, la condanna – dopo un sommario processo – fu la pena capitale. Accusato di essere un émigré che aveva combattuto contro la Francia (il che era vero), il 21 marzo Enghien fu condotto davanti al plotone d’esecuzione e fucilato.
Bonaparte era deliberatamente ricorso a un atto di rappresaglia e terrorismo per scoraggiare sia i Borbone che i loro sostenitori: il Console a vita, personalmente, non aveva nulla contro il Duca. Un mese prima di farlo giustiziare, Bonaparte non si curava nemmeno della sua esistenza; egli sostenne che Enghien voleva farlo ammazzare, per cui doveva proteggersi. In merito all’opinione pubblica internazionale che condannò Napoleone, egli si chiese il perché dovesse avere riguardi verso il nobile: soltanto perché era il cugino dell’ex re di Francia? Trattavasi di un pericoloso Borbone, non erano indispensabili le prove.
Con quel gesto il Primo console aveva scalato gli ultimi gradini che lo separavano dal trono: due mesi dopo – il 18 maggio 1804 – Bonaparte assunse il titolo di imperatore: Napoleone I. All’accusa di aver violato il diritto internazionale [3] in quanto Enghien fu arrestato fuori dai confini francesi, Napoleone rispose che l’inviolabilità dei territori non è fatta per favorire i colpevoli: Enghien si nascondeva nel Baden, ed è lì che organizzava i propri complotti. Per il Console a vita, spettava a Carlo Federico (1728-granduca 1738-margravio 1771-1811) protestare per la violazione del proprio territorio: però non lo fece. Che si sia comportato così a causa della sua inferiorità politica e militare è fuor di dubbio, ma per Napoleone tutto ciò non mutava i termini della questione.
In definitiva, l’Imperatore nelle sue Memorie scrive che gli unici responsabili della morte del Duca sono coloro che l’hanno coinvolto nelle cospirazioni contro la persona di Bonaparte. Oppure – se si volesse credere che Enghien non fosse al corrente dei piani eversivi, e che la sua famiglia in quel periodo non tramasse contro Napoleone – i responsabili sono coloro che non l’hanno avvertito e lasciato dormire, accampato vicino al precipizio, a due passi dal confine francese.
Il problema non è – come finge Napoleone di credere nelle sue Memorie – se il Duca d’Enghien fosse o no implicato in una congiura. Il Duca aveva già combattuto contro l’esercito repubblicano francese al soldo dell’Austria e dell’Inghilterra. Quindi, se fosse stato catturato in Francia o in un Paese dell’Impero Francese avrebbe potuto essere processato secondo le leggi allora vigenti in Francia. Il vero problema è che il Duca d’Enghien fu preso in un Paese neutrale, e il fatto che questo fosse ai confini della Francia – come argomentò Napoleone – non aveva alcuna rilevanza giuridica.
Ormai, a quel tempo, la civiltà, la cultura, non accettavano la pratica dell’assassinio politico; per questo motivo l’opinione pubblica europea fu tanto scossa e condannò aspramente l’episodio come un crimine. In seguito, pure ai tempi più recenti, gli esempi, purtroppo sono tanti: l’uccisione del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuß (1892-1934) da parte di Hitler; quello di Carlo (1899-1937) e Nello Rosselli (1900-37) a Parigi da estremisti francesi di destra simpatizzanti per il governo italiano; l’assassinio di Lev Trotzkij (1879-1940) in Messico da parte di elementi stalinisti; fino all’assassinio del ministro marocchino al-Mahdī bin Baraka (Ben Barka: 1920-65) da parte dei servizi deviati del suo Paese. Anche in anni più vicini a noi l’omicidio politico ha continuato ad essere una pratica di governo costante (CIA e KGB docunt) ma sempre più violentemente condannata dalla coscienza popolare.
Nel suo più celebre romanzo, Guerra e pace, Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1810) menziona – tra le varie opere teatrali e letterarie che vi fanno riferimento – l’episodio dell’esecuzione: “C’era un aneddoto, allora popolare, nel quale si raccontava che il duca di Enghien si era recato in segreto a Parigi per visitare Mademoiselle George [4], nella cui dimora gli capitò di incontrare Napoleone Bonaparte, e che in presenza del duca egli era caduto in una delle sue crisi di svenimento, rimanendo così alla mercé del duca. Quest’ultimo lo risparmiò, e questa magnanimità fu successivamente ricambiata dal Bonaparte con la morte”. L’unica giustificazione che Napoleone adduce per l’assassinio del Duca d’Enghien, come abbiamo visto, è la ragione di Stato (raison d’État); però essa esula da ogni principio morale. La fucilazione del Duca d’Enghien resta il primo vero assassinio politico della storia, in quanto fu il primo a essere sentito come tale e no di certo perché in precedenza non si applicasse tale pratica.
Note:
[1] G.P., Il corrispondente – giornale di Madrid, tratto da La voce della verità – Gazzetta dell’Italia centrale N. 1316, 4 gennaio 1840, pag. 1303.
[2] In Réflexions ou Sentences et Maximes morales (prima edizione: Claude Barbin, Parigi 1664), citazione 443: “Les passions les plus violentes nous laissent quelquefois du relâche, mais la vanité nous agite toujours”; ed. it.: Massime. Riflessioni o sentenze e massime morali, traduzione di Giovanni Bogliolo, Opportunity Books, Santarcangelo di Romagna (Rn), 1996.
[3] Di norma stabilito a partire dalla Pace di Vestfalia (1648) che metteva fine alla Guerra dei Trent’Anni, principiata nel 1618.
[4] Mademoiselle George, alias l’attrice Marguerite-Joséphine Weimer (1787-1867), fu una delle amanti di Napoleone.
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inserito su www.storiainrete.com il 10 maggio 2012