Tutto mi divide da Ilaria Salis, sul piano delle idee e delle posizioni politiche. Ma la donna italiana accusata, insieme ad altri ‘antifascisti militanti’, di una aggressione, avvenuta a Budapest oltre un anno fa, nei confronti di un gruppo di estremisti di destra, è vittima di un trattamento che indigna. Sono 13 mesi che è trattenuta in prigione in condizioni degradanti e portata nell’aula del tribunale locale due volte in catene come un animale, senza che il processo abbia inizio e si possano vedere le prove di quanto avrebbe commesso.
La condanna prevista per il ‘delitto’ che le viene attribuito va da un minimo di due anni a un massimo di venti. E questo basta a far capire le incongruenze di un codice penale che lascia all’arbitrio del giudice un margine di decisione assurdo. Le reazioni del governo italiano sono state inesistenti o sotto traccia fino a quando il caso è esploso di fronte alle immagini della ‘tradotta’ dell’imputata in catene nell’aula di giustizia.
Poi interventi dell’ambasciatore a Budapest per migliorare le condizioni carcerarie, accompagnate da dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano che invoca l’autonomia della magistratura ungherese e chiede che il caso non venga politicizzato. Il tutto nel silenzio dell’Europa, che ci prescrive la lunghezza delle banane o la grandezza delle cozze, e ci bacchetta quando non siamo abbastanza veloci a soccorrere barconi di clandestini in acque internazionali, ma tace sulle palesi violazioni dei diritti civili in Ungheria.
Ma il caso è politico. E’ una lezione impartita dal governo ungherese all’Europa prendendo come capro espiatorio un cittadino italiano, ovvero l’anello più debole del consorzio europeo. La morale è semplice: noi facciamo a casa nostra quello che vogliamo; l’Europa si limiti a mandarci i finanziamenti richiesti, che sono l’unica cosa che ci interessa.
A quanti al governo fanno le anime belle invocando l’indipendenza della magistratura e la presunta impossibilità del governo ungherese di intervenire, vorrei ricordare un caso famoso.
Il caso di Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani condannati a morte nel 1927 negli Stati Uniti per un delitto che probabilmente non avevano commesso. Non erano due santarellini e certamente colpe ne avevano, ma probabilmente non quella per cui furono condannati alla sedia elettrica.
Il caso ebbe un clamore mondiale e spaccò l’opinione pubblica internazionale e italiana in particolare. Era il 1927 e al governo dell’Italia c’era Benito Mussolini, che non esitò a intervenire in modo ufficiale e ufficioso per impedire quella esecuzione. Anche perché era chiaro che ai due anarchici, oltre al delitto, veniva imputato di essere italiani, e l’America allora era pervasa da una sorta di isteria antitaliana. Non ebbe successo, ma ci provò!
E allora, come scrisse Concetto Pettinato allo stesso Mussolini durante la RSI, rimproverandogli l’inerzia politica, vorrei dire al governo “Se ci sei batti un colpo!”. Finora questo colpo l’ha battuto soltanto il Presidente Mattarella. Onore al suo senso del dovere. Ma non basta. Altrettanto deve fare il governo, visto altresì che si dichiara ogni giorno il difensore della dignità nazionale…