Indro Montanelli sosteneva che a Bossi, un giorno, avremmo dedicato monumenti nelle piazze italiane,
di fianco a quelli di Giuseppe Garibaldi. Lo considerava, infatti, un patriota involontario. Esaltando l’inesistente Padania, la Lega ci ha obbligati a ragionare sull’Italia esistente.
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di Beppe Severgnini dal Corriere della Sera del 20 febbraio 2011
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Fingendo di disprezzare la nazione, ha risvegliato il nostro sentimento nazionale (poco a tanto che sia). A Umberto Bossi ha dato una mano Roberto Calderoli. Uno e l’altro persone più ragionevoli di quanto vogliano far credere: lo prova il fatto che la Lega s’è tenuta lontana dalla violenza. Definendo «una follia costituzionale» la festa nazionale del 17 marzo, il ministro della Semplificazione – nomen omen – ne ha decretato il successo.
Il nostro tribalismo è talmente radicato che, per combinare qualcosa, dobbiamo trovare un avversario. Il 150° dell’Unità si trascinava tra comitati comatosi, mostre periferiche e i discorsi eccitanti come tisane. Gli avversari dell’epoca – gli austriaci, la Chiesa cattolica – sono buoni amici dello Stato italiano. La sinistra, a lungo sospettosa del tricolore, oggi lo sventola con convinzione. Uno sbadiglio gigantesco stava per coprire l’anniversario. Ci hanno pensato l’altoatesino Luis Durnwalder e l’europarlamentare Mario Borghezio: un monumento anche a loro, per favore. Il primo ha spiegato che «il gruppo linguistico tedesco non ha nulla da festeggiare»; il secondo ha distillato perle di saggezza radiotelevisiva. «Il festival di Sanremo è una festa padana», ha spiegato a Radio 24. Poi, turbato dall’inno all’inno (di Mameli), ha cambiato idea: «Benigni? Peggio di Ruby. Fa semplicemente schifo il prostituirsi di un artista alle esigenze della retorica di una parte del Paese contro l’altra».
A questo punto, direi, è fatta. Il 17 marzo si avvia a essere una vera festa, nuova e sentita. Tenessimo i negozi chiusi, potremmo approfittarne per pensare. Un’attività che non ha conseguenze immediate sul prodotto interno lordo; ma non fa mai male. Potremmo trovare, per esempio, un modo originale di celebrare insieme un giorno fondamentale della nostra storia comune. Il 25 aprile è la festa del sollievo, il 2 giugno il sigillo di una decisione civile, il 4 novembre la commemorazione di una vittoria militare. Il 17 marzo dovrebbe essere il ricordo gioioso di un momento epico (diciamolo: non sono molti, nella nostra storia).
Epico: come la rivoluzione francese, l’indipendenza americana, la vittoria inglese contro i nazisti. L’Italia a metà dell’Ottocento era rock. Andate a Pavia, visitate la mostra «Le università erano vulcani». Guardate i ritratti dei fratelli Cairoli – quattro su cinque caduti per la patria che sognavano – e vedrete ragazzi italiani: stesse facce, stessi occhi, stesse espressioni. La casa della mamma Adelaide – piazza Castello, angolo strada Nuova – era la base di Garibaldi in una città che Ugo Foscolo aveva infiammato, anni prima, declamando «O italiani, io vi esorto alle storie perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare…». Un riassunto folgorante della nazione di ieri e di oggi.
Una nazione che Roberto Benigni sembra aver svegliato, uscendo prepotentemente dal recinto dei Five Millions Club (i cinque milioni di italiani che acquistano i quotidiani, leggono qualche libro e discutono di questi temi). Venti milioni di telespettatori sono tanti. Ma ricordiamoci che siamo una nazione specializzata in buone intenzioni che quasi mai riusciamo a trasformare in buoni comportamenti (anche perché ora non ce lo chiede più nessuno, mentre prima ce lo chiedevano nel modo sbagliato).
Ringraziare Benigni e Bossi, idealmente uniti nel loro diverso patriottismo, è un buon punto di partenza. Ma non basta. Bandiere ne abbiamo sventolate molte; balconi ne abbiamo addobbati; fasce tricolori ne abbiamo viste tante, di traverso a petti non sempre meritevoli. Il rischio di rivedere il già visto, giovedì 17 marzo, è forte.
Perché non portare allora una coccarda tricolore, quel giorno? Francesi, inglesi, tedeschi e americani, in occasioni particolari, mettono all’occhiello bandiere, distintivi e papaveri. È un segno collettivo che denota una scelta personale: le bandiere si guardano, una coccarda s’indossa. I leghisti di stretta osservanza non lo faranno? Non è un problema. Loro, come abbiamo visto, aiutano in altro modo.
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Inserito su www.storiainrete.com il 21 febbraio 2011