di Giovanni Sessa da Ereticamente del 28 Giugno 2021
Nel clima politico e culturale nel quale, da tempo, siamo immersi, è davvero raro leggere ricerche sulla monarchia come istituzione, che abbiano il tratto dell’oggettività storica e siano prive di pregiudizi e livore teorico. Un libro, in tal senso, di grande rilievo è, senza alcun dubbio, I Plantageneti (1154-1485) di John Hoover Harvey, da poco pubblicato da Iduna editrice (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 305, euro 25,00). Il volume uscì in Inghilterra in prima edizione nel 1947 e in seconda edizione, con testo ampliato e rivisto, nel 1958. L’edizione italiana è chiusa da un’Appendice di documenti e da una ricca bibliografia in tema, ed è arricchito da un repertorio di immagini significative. L’autore, J. H. Harvey (1911-1997) è stato insigne storico dell’architettura, specialista del gotico britannico e della storia del giardino all’inglese. Negli anni Trenta del secolo scorso fu vicino all’Imperial fascist league. L’incipit del testo è connotato da una chiosa critica: Harvey rileva il ruolo negativo della vulgata storiografica illuminista e progressista, consistente nell’aver discriminato la monarchia come istituzione e, più in particolare, di aver sminuito il ruolo giocato da diversi re. Il re inglese Riccardo II, è citato da molti autori, in forza della sua stravaganza caratteriale, piuttosto che per la sua insistenza: «sul diritto dello schiavo ad ottenere la libertà una volta raggiunto un certo livello culturale» (p. 7). Per non dire di Luigi XVI di Francia, ghigliottinato dai rivoluzionari, che: «abolì nei possedimenti regali gli ultimi residui di servitù della gleba, mentre i nobili e il clero mantennero i loro schiavi per altri dieci anni» (p. 7). Esempi illuminanti, che non sono rari nella storia delle monarchie e che, soprattutto, contrastano con l’intellettualmente corretto della manualistica vigente. Da un punto di vista generale, è opportuno che il lettore abbia contezza che Harvey legge in termini “tradizionali” la monarchia, in quanto sostiene che fu la credenza nel potere “magico” e “sacerdotale”, non semplicemente “guerriero” dei monarchi, a rafforzare l’autorità regale nel tempo. Al sovrano si attribuiva il rigoglio delle messi, la guarigione degli infermi, il controllo del maltempo e, alle sue eventuali insufficienze, venivano attribuiti i disastri naturali o quelli relativi a scelte politiche inopportune.
Oggetto specifico dello studio in questione è quel periodo della storia medievale inglese, in cui furono posti i fondamenti della civiltà europea successiva, dalla fondazione della dinastia Wessex da parte di Cerdico, fino alla usurpazione del trono: «su cui allora sedevano i Plantageneti, da parte di un altro britanno, Enrico Tudor» (p. 8). L’interesse concreto dello studioso si concentra sul periodo che va dal 1154 al 1458, in cui il trono d’Inghilterra fu retto dai Plantageneti. Per questo la narrazione, divisa in tre stagioni, primavera, estate e autunno, muove dall’ascesa al trono di Enrico II e si conclude con la narrazione del regno di Riccardo III. Il nome della dinastia Plantageneta discende dal soprannome di Goffredo d’Anjou, padre di Enrico, che aveva quale insegna il “plante genet”, vale a dire un ramoscello di ginestra fiorita. Il nome, quindi, ben indicava: «un epitome di quella forza vitale che caratterizzò l’intera dinastia […] fino alla sua estinzione sui campi di Bosworth e di Pavia» (p. 8). Ciò spiega anche il titolo “stagionale” dei capitoli di quest’opera. I Plantageneti furono coraggiosi, lungimiranti, illuminati, amanti dell’arte e della giustizia, a volte dal carattere intemperante.
Il metodo d’indagine dell’autore, proprio per questo motivo, si intrattiene sulla personalità dei singoli sovrani, sullo scandaglio della loro anima, aspetti in genere trascurati dalla storiografia ufficiale. L’analisi non conosce mai la “pesantezza” accademica, supportata com’è dalla felice e coinvolgente penna di Harvey, fedele alla più classica tradizione storico-biografica anglosassone, modello insuperato di chiarezza. Al medesimo tempo, l’autore non scade mai nella semplificazione e nella banalizzazione romanzesca, nel presentare le vicende in cui furono coinvolti i tredici Plantagenti (tredici sovrani proprio come i Valois). Dalla lettura si evince la consultazione di un numero assai rilevante di documenti e fonti. Tra essi prevale il debito contratto nei confronti: «della brillante opera di Philip Lindsay, Kings of Merry England» (p. 10). Harvey postula l’esistenza di un’unica cultura originaria, di un’ unica Tradizione, che si diffuse in ogni dove, servendosi come propri vettori, non solo degli Egizi, ma anche dei Sumeri. Tale civiltà ebbe come chiave di volta l’istituzione del Divino Potere Sovrano, che avrebbe fatto discendere il potere sacerdotale da quello regale. Per tale ragione Incoronazione e Consacrazione andrebbero considerate quali riti imprescindibili della sovranità legittima.
Il diffondersi di tale civiltà è legato non tanto, come la storiografia ufficiale ritiene, alle migrazioni dei popoli, quanto alla “continuità dinastica”, garantita dalla preservazione del sangue regale nel corso del tempo a tutela: «della discendenza diretta di tutte le famiglie reali da un ceppo unico originario» (p. 19). Ciò spiega, inoltre, perché le usurpazioni dinastiche abbiamo avuto sempre vita breve. A Cerdico, che aveva nome celtico, fece seguito cinque generazioni dopo, Ina, rappresentante dei legittimi re britannici. Elisabetta II sarebbe la discendente di tale dinastia nella trentaseiesima generazione. Le dieci generazioni dei Plantageneti dettero forma e carattere all’Inghilterra. Il fondatore, Enrico II, sposò l’erede d’Aquitania e venne in contatto con la cultura provenzale. Quindi Enrico, e suo figlio Riccardo, sarebbero stati signori di un regno eterogeneo, tenuto insieme dalla loro personalità e da quella dei loro successori. Mentre in Europa era ancora vigente l’anarchia feudale, l’Inghilterra fin da 1086, aveva saputo, con il giuramento di fedeltà dei nobili al re, integrare nel regno la tradizione feudale. Figura paradigmatica fu quella di Edoardo III. Molto legato alla personalità del padre Edoardo II, si liberò, grazie alla moglie Filippa di Hainault, sposta nel 1328, dall’ingombrante presenza politica della madre e di Mortimer. In Edoardo: «si fondevano la cordialità e l’esuberanza del padre con la fermezza del nonno e le violente passioni della madre» (p. 168). Con il suo regno l’Inghilterra sembrò vivere una nuova età dell’oro. Ristabilì l’ordine pubblico, aprì i porti ai mercanti stranieri, stimolando le attività produttive ma, soprattutto, determinò la rinascenza, senza precedenti, delle arti. Pose, inoltre, con risolutezza, la propria candidatura al trono di Francia, aprendo un conflitto che durò centoquindici anni. Nel 1340, Edoardo III, fedele agli ideali cavallereschi, sfidò il rivale francese, Filippo VI, a singolar tenzone, per evitare la guerra che avrebbe devastato i due popoli. Questo re ben rappresentò in sé e nelle sue gesta, l’ “energia vitale” dell’intera dinastia.