Il lupo perde il pelo ma non il vizio. E a volte fa anche finta di non perderlo, il pelo. Nonostante l’annuncio della direttrice dei Musei Reali di Torino, il pannello della mostra “Africa. Le collezioni dimenticate” che accusava falsamente l’Italia di sfruttamento e schiavismo in Somalia è ancora al suo posto.
In seguito alla denuncia di Alberto Alpozzi – giornalista ben noto ai lettori di Storia in Rete,, ricercatore e profondo conoscitore delle questioni coloniali italiane con un’esperienza ventennale – era stata infatti annunciata la sostituzione di un pannello esplicativo in cui veniva descritta la colonizzazione italiana della Somalia come un mostruoso sfruttamento schiavistico. A corroborare questa narrazione wokeista, falsa e bugiarda, la proiezione di un filmato d’epoca da cui è stato abilmente tagliato il girato in cui il Duca degli Abruzzi distribuiva ai lavoratori indigeni dei premi di produzione. Una sequenza che avrebbe stonato in una favoletta con l’Italia cattivo oppressore schiavista: come, mostrare dei lavoratori regolarmente contrattualizzati (istituto di diritto giuslavorista introdotto in quelle terre dalla nostra bieca dominazione coloniale…) che anziché frustate ricevono buste paga!
Dopo le scuse e l’annuncio di errata corrige da parte della direttrice del museo, Alberto Alpozzi è stato attaccato su La Stampa il 15 novembre da una delle organizzatrici della mostra, senza aver avuto diritto di replica. La professoressa Cecilia Pennacini ha cercato di sviare la polemica, tirando in ballo l’uso di armi chimiche in Etiopia (“E allora, l’iprite?”. Un argomento buono per tutte le stagioni), che sta alla materia del contendere come i cavoli a merenda, ma anche con uno squallido attacco ad hominem, per il quale Alpozzi, non essendo un accademico, non sarebbe un interlocutore all’altezza del dibattito.
Un atteggiamento di spocchia, ribadito con un’ondata di “soccorso rosso”: da un articolo sulla Treccani e poi il 20 novembre tanto da un’altra voce chiamata da La Stampa a dar manforte a questa narrazione antinazionale e antistorica – Gianni Oliva, che proprio in questi giorni vede comparire nel bookshop del museo anche un suo testo – quanto in un convegno tenuto a Torino proprio il 15 novembre. Interessante, tuttavia, che il convegno in questione fosse incentrato attorno a una figura ben nota nella storiografia sul colonialismo: Angelo Del Boca. Il quale – esattamente come Alberto Alpozzi – non era affatto un accademico, ma un giornalista. Che, rispetto ad Alpozzi – ha infarcito i suoi libri di approssimazioni, mezze verità, esagerazioni (tutte ampiamente documentate carte alla mano) e soprattutto che è stato portatore di un punto di vista dichiaratamente anticoloniale e anti-italiano, per stessa sua ammissione.
Dunque, il valore dei lavori di Alpozzi è incomparabilmente superiore, vista e considerata l’autorevolezza riconosciuta lui da tutti coloro che si sono confrontati con la sua opera (primi fra tutti gli stessi somali, fra cui l’ex ambasciatore del paese africano). Nessuno finora ha trovato errori della magnitudine di quelli riscontrati nei lavori di Del Boca. Eppure, per i difensori della narrazione antinazionale e antistorica, Alpozzi sarebbe un personaggio minore, Del Boca una specie di domineddio. Va da sé che il problema non è la realtà dei fatti come vengono descritti, bensì quanto la descrizione di questi fatti possa essere più o meno compiacente alla narrazione che si vuol portare avanti a tutti i costi. Dunque, Del Boca va bene pure se non era un accademico, perché dice cose che ci piacciono, mentre Alpozzi è un poveraccio senza una cattedra perché dice cose che ci offendono.
Insomma, l’ultima sponda dell’ondata ignorazionista è l’attacco personale, per poter puntellare quella che appare sempre più una torre d’avorio fatta di affermazioni autoreferenziali (io cito te, tu citi me), dissonanza cognitiva, negazione dei fatti e dei documenti e strepiti sentimentali, per i quali la “percezione” che i somali fossero “schiavizzati” vale più del fatto documentato che essi erano in realtà lavoratori con regolare contratto e stipendio. L’importante è che non ci sentiamo offesi.
Poiché il caso di Torino non è il solo, e l’attacco contro la storia nazionale attraverso la propalazione di falsità e bugie sul nostro passato coloniale è oramai a tutto campo, comincia a delinearsi la necessità di avviare una selezione del personale che si occupa di cultura coi denari pubblici sulla base di una rigida politica di competenza e onestà intellettuale. La tessera politica deve essere l’ultimo dei problemi, purché chi si candida a gestire la cultura sia rispettoso delle basi del pensiero libero: principio di realtà, principio di non contraddizione e rispetto per il metodo scientifico. L’adesione dichiarata alle ideologie antiscientifiche del decostruzionismo, intersezionalismo, “studi di genere” o “studi anticoloniali” (e chi più ne ha più ne metta…) devono essere motivo di squalifica, alla stessa maniera con cui a nessuno sano di mente verrebbe l’idea d’affidare un istituto di geografia astronomica a un seguace del terrapiattismo o una clinica per malattie da obesità a un attivista per la body positivity.
Bisogna dunque avere il coraggio di discriminare fra studiosi seri e “attivisti per una causa”. L’unica causa che deve avere uno studioso a cui viene affidato del denaro pubblico per fare divulgazione culturale è spendere quei soldi nell’interesse del popolo contribuente. E non vi è alcun interesse nel sentirsi raccontare balle o mezze verità.
Scrivi che gli italiani furono schiavisti? Dipingi gli italiani come “irroratori di agente arancio” coi loro aerei nel Corno d’Africa? Pensi che l’esposizione dei fatti sia meno importante della tua narrazione piagnona e lacrimevole? Dovresti molto semplicemente cambiare mestiere. La storia non è un lavoro che fa per te. Non si può servire Dio e Mammona. Se uno studioso si mette al servizio di decostruzionismo, intersezionalismo o marxismo culturale, molto semplicemente non può essere un interlocutore degno di ricevere incarichi pubblici per impiegare poi i bilanci che gli sono affidati nella costruzione di narrative nemiche del nostro popolo e della verità oggettiva.
Sarebbe ora di fare, insomma, una bella pulizia.