«Il più modesto palazzo di Firenze o di Roma vale più che tutto il Castello di Windsor. Se gli inglesi distruggeranno qualcosa a Firenze o a Roma, commetteranno un delitto. A Mosca, non sarebbe un gran male e, disgraziatamente, neppure a Berlino».
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di Fabio Fattore da IL MESSAGGERO
Questo singolare giudizio da turista del 1941 è di Adolf Hitler. E’ un brandello di una delle tante, tantissime chiacchierate – ma sarebbe meglio definirli monologhi – che il Fuhrer teneva con i suoi ospiti e i più stretti collaboratori durante i pasti e che in certi periodi, durante la Seconda guerra mondiale, furono registrati e trascritti per ordine del suo segretario Martin Bormann. Lo scopo: evitare che le “pillole di saggezza” del capo, pronunciate in un contesto informale, andassero perdute. Oggi la raccolta più completa di quegli scritti esce in Italia con il titolo Conversazioni a tavola di Hitler (Leg, 700 pagine, 38 euro) con una prefazione e il saggio “La mente di Adolf Hitler” dello storico britannico Hugh Trevor-Roper.
La pubblicazione del libro, in realtà, ha alle spalle un’odissea fatta di dattiloscritti perduti e ritrovati, edizioni parziali e battaglie giudiziarie che si snoda per tutto il dopoguerra. E’ un documento eccezionale, Bormann non aveva poi torto: non sono solo banalità o acrobazie mentali di un uomo che pretendeva di esprimere giudizi su tutto lo scibile. C’è, invece, il suo pensiero, formulato in maniera più diretta rispetto ai discorsi o ai testi ufficiali. Hitler, come spiega Trevor-Roper, parlava a pranzo o a cena alla Wolfsschanze o al Wehrwolf (le sue basi in Prussia e in Ucraina). Si dilungava soprattutto dopo cena, era un conversatore appassionato ed era capace di tirare fino all’alba, con Eva Braun che gli lanciava «un’occhiata di disapprovazione oppure chiedeva l’ora a voce alta» quando vedeva che stava esagerando, «allora Hitler interrompeva il suo discorso, porgeva le sue scuse e licenziava gli ospiti». Questo soprattutto nell’ultima fase della guerra, quando il dittatore aveva sostituito la compagnia dei generali, di cui non si fidava più, con quella delle segretarie, annoiandole fino allo sfinimento con i suoi monologhi sempre più ripetitivi e sempre meno legati a quello che le avrebbe interessate veramente: sapere che cosa stava succedendo là fuori, come sarebbe andata a finire la tragedia mondiale che proprio lui aveva scatenato.
Hitler parla di tutto, con leggerezza e a volte anche scherzando. Per Mussolini ha giudizi lusinghieri: «Ho una profonda amicizia per quest’uomo straordinario», confida ancora nel gennaio del ’42. «Il Duce – spiega una notte di settembre 1941 – ha delle difficoltà perché il suo esercito parteggia per il re, perché l’internazionale dei preti ha la sua sede a Roma, e perché lo Stato, contrariamente al popolo, è fascista solo a metà». Ammira l’Italia e anche gli italiani, ma quelli del Nord: «Il tipo italiano ripugnante non si trova che nel Sud, e neppure dappertutto. Quel tipo l’abbiamo anche noi… Se paragono i due tipi, quello di questi italiani degenerati e il nostro, mi è molto difficile dire quale dei due sia il più antipatico».
E’ affascinato dalla civiltà romana, addirittura per vantarsi di essere vegetariano sostiene che lo fossero anche i soldati di Cesare. Attacca il Vaticano e il cristianesimo, «il Cristo era un Ariano e San Paolo si è servito della sua dottrina per mobilitare la feccia e organizzare un pre-bolscevismo. Questa intrusione nel mondo segna la fine di un lungo regno, quello del luminoso genio greco-latino». Salvo poi dire che «con i papi del Rinascimento avrei potuto intendermi… un papa, quand’anche criminale, che protegge grandi artisti e diffonde la bellezza intorno a lui, mi è sempre più simpatico del ministro protestante che si abbevera alla fonte avvelenata».
Ama i cani, ama la bellezza femminile, ma non le relazioni con l’altro sesso. Parla di donne, ne ricorda una bellissima che una volta si lanciò verso di lui per offrirgli un mazzo di fiori, «intorno a me tutti spalancarono tanto d’occhi, ma nessuno di quegli idioti pensò di chiedere a quella ragazza il suo indirizzo perché io potessi mandarle un rigo di ringraziamento. Me ne son sempre fatto i più amari rimproveri». Ma il matrimonio, quello no: «E’ una fortuna che non mi sia sposato. Per me il matrimonio sarebbe stato un disastro… Il lato brutto del matrimonio è che vengono a crearsi dei diritti. Allora è molto meglio avere un’amante. Il fardello è meno gravoso, e tutto si pone sul piano del dono». Due invitate fanno la faccia scura, il Fuhrer lo nota e chiarisce: «Questo, beninteso, riguarda soltanto gli uomini superiori!».
C’è di tutto nello zibaldone delle conversazioni a tavola. «Ma nonostante il disordine di un materiale tedioso e sgradevole – sostiene Trevor-Roper – il libro contiene altresì il nocciolo del pensiero di Hitler ed è lo specchio del suo repellente genio: un genio che, a mio giudizio, è sia possibile che essenziale svelare».
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Inserito su www.storiainrete.com il 21 aprile 2010