di Marco Valle da InsideOver del 9 maggio 2023
Nel 1095 papa Urbano II convocò un concilio a Clermont in Alvernia per regolare i problemi del clero francese e nel corso del viaggio incontrò a Piacenza gli ambasciatori di Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio, portatori di una richiesta d’aiuto contro l’avanzata turca in Anatolia. Il pontefice sistemò prima le cose galliche e l’ultimo giorno, il 27 novembre, a margine della sua allocuzione conclusiva esortò i nobili ad interrompere le guerre feudali e dirigersi verso la Terrasanta per aiutare i fratelli d’Oriente e liberare il Santo Sepolcro dagli esosi pedaggi imposti dai califfi.
In realtà il callido Urbano aveva mire più immediate e concrete – salvaguardare i delicati equilibri continentali lacerati dalla lotta per le investiture tra Papato e impero e riportare Costantinopoli nella sfera romana – tant’è che il suo discorso non venne nemmeno trascritto dagli scribi papali, ma le sue parole, vere o presunte, entusiasmarono i turbolenti cavalieri d’Europa. Finalmente per tutti loro – una somma di falliti di successo… – un obiettivo luminoso: il salvacondotto celeste attraverso il combattimento. Pentitevi e armatevi. E partite. Subito.
Prese così forma quella che Franco Cardini ha definito una “realtà proteiforme in cui si intrecciavano fede cristiana e necessità d’arricchimento”. Al solito il professore ha colto nel segno: accanto ad aspetti religioso-politici e militari, la parabola dei crucisignatus in Terrasanta aveva anche una solida ratio economica e si avvaleva di una logistica efficace. Ogni spedizione di armati, passaggio di fedeli e la stessa esistenza dell’Outremer — due secoli di battaglie e compromessi, mediazioni e scontri — debbono essere inquadrati in una sofisticata architettura finanziaria e infrastrutturale di cui beneficiarono grandemente armatori e mercanti italiani e (ma in misura ben minore) provenzali, marsigliesi, aragonesi e catalani. Un panorama che Joshua Prawer ha così tratteggiato:
I primi ad approfittare di questa formidabile finestra d’opportunità furono i genovesi. Quando il 7 giugno 1099 la prima crociata raggiunse Gerusalemme, i baroni — privi di macchine d’assedio e ormai quasi senza viveri e acqua — si accorsero che la città aveva mura alte e robuste: l’impresa rischiava di fallire proprio sotto il suo obiettivo. Alla fonda a Giaffa vi erano però le galee di Guglielmo Embriaco, capo di una potente famiglia genovese. I liguri, uomini di mondo, fiutarono subito il buon affare e in cambio di tante “palanche” procurarono cibo alle truppe e, dopo aver sfasciato e sezionato una delle loro navi salirono sino al campo degli assedianti portando il legno e i carpentieri indispensabili per costruire lunghe scale, torri e una catapulta. Come notano gli storici l’arrivo dei genovesi segnò un deciso salto di qualità nelle potenzialità logistiche dei crociati, spia di una conoscenza tecnologica propria della città di mare e dovuto alle esperienze derivate dalla cantieristica navale.
Il 15 luglio i crociati guidati da Goffredo da Buglione e Tancredi d’Altavilla superarono la cinta ed espugnarono la città. I genovesi applaudirono e all’indomani passarono all’incasso, strappando ai vincitori importanti concessioni nel nuovo regno cristiano. Nel settembre di quell’anno cruciale sbarcarono i pisani. In ritardo, poiché la flotta forte di 120 navi si era attardata nel saccheggio di alcune isole bizantine. Un peccato tutto sommato veniale e benedetto da Daiberto, rector et durtor della spedizione oltre che arcivescovo di Pisa e nuovo legato pontificio di Gerusalemme e dintorni: sotto la sua luminosa (e ben remunerata) guida anche i toscani si assicurarono dai baroni franchi — grandi guerrieri e pessimi contabili — approdi e facilitazioni sul litorale siriaco.
La presenza dei pisani non impedì negli anni successivi ai liguri un ulteriore rafforzamento in Terra Santa. Nel 1099 Guglielmo tornò nel Levante con uno stuolo di 26 galere e sei naves da trasporto, una flotta considerevole per sorreggere un investimento decisamente importante. Ottenendo ogni volta ricompense e ulteriori privilegi — oltre ai fondaci nei porti anche un terzo del bottino ricavato dal saccheggio delle città conquistate — Genova fornì ai capi crociati l’indispensabile appoggio navale per perfezionare la conquista del litorale, contribuendo, talvolta in sinergia con Pisa, alla conquista di Arsuf, Cesarea, Acri, Beirut, Tripoli.
Nell’ottobre 1101 la squadra vittoriosa di Guglielmo rientrò trionfalmente a Genova e nel febbraio successivo venne eletto a console. A questo punto l’uomo scompare dalle cronache, ma non il suo clan che, ormai potente, continuò ad organizzare spedizioni in Terrasanta con buoni guadagni. Gli Embriaci, primo e unico caso di una famiglia non feudale nell’Outremer, per i servigi dell’ormai leggendario Guglielmo e dei suoi parenti, ricevettero nel 1103 la signoria della città libanese di Byblos (l’attuale Jbeil) mantenendola per quasi due secoli. Ancor oggi questa piccola grande storia italica rivive nel Musée de Byblos, un delizioso spazio espositivo ricavato all’interno della massiccia cittadella crociata che sovrasta il porticciolo medievale.