Ideale nazionale e democrazia in Italia. Da Foscolo a Garibaldi (Gangemi editore) è il risultato dell’annosa ricerca sui protagonisti del nostro Risorgimento che Lauro Rossi svolge da decenni. Il volume consta di una serie di saggi che riportano l’attenzione su protagonisti dimenticati della lotta per l’indipendenza – come Giovanni Fantoni, Enrico Michele L’Aurora, Melchiorre Gioia, Alberto Mario – e su aspetti meno noti del pensiero e dell’azione di Foscolo, Mazzini, Garibaldi.
di Dino Cofrancesco dal Giornale del 17 dicembre 2014
Nel primo capitolo Lauro Rossi ci ricorda che l’autore dei Sepolcri non fu soltanto un grandissimo poeta, ma altresì un ideologo pieno di geniali intuizioni. Il leitmotiv delle sue riflessioni storiche e politiche sembrava esplicitare il verso manzoniano «liberi non sarem se non siam uni»: «Non v’è libertà, non sostanze, non vita, non anima in qualunque Paese e con qualunque più libera forma di governo, dove la nazionale indipendenza è in catene». Studioso di Hobbes, di Bacone, dei grandi storici dell’antichità, da Tucidide a Tacito, Foscolo può considerarsi il teorico di un liberalismo realista, forse a tratti persino conservatore («in Italia abbiamo plebe, non cittadini o pochissimi»), affine a quello di Vincenzo Cuoco. Né meno forte in lui era il nesso tra libertà politica ed esercito di cittadini: «quando ottime, eterne fosser le leggi, nulle per noi tornerebbero senza la milizia, principio, sicurezza ed ingrandimento degli stati». Le sue annotazioni ai testi di Raimondo Montecuccoli, per Rossi, «debbono essere considerate» tra le sue «più acute pagine di storia militare».
Pur apprezzando molto i capitoli dedicati a Giovanni Fantoni e a Enrico Michele L’Aurora, è su Mazzini e su Garibaldi che finisce per concentrarsi l’attenzione del lettore, giacché Rossi fa luce su momenti del loro impegno politico e intellettuale spesso trascurati. In particolare, non erano a tutti note le posizioni assunte da Mazzini nei confronti delle insurrezioni sanfediste che travolsero la Repubblica partenopea del 1799 e sulla Rivoluzione francese di cui difese l’anima girondina ed esecrò la fase giacobina. Come Cuoco, l’apostolo genovese rilevò «l’estraneità e l’astrattezza dei principi che costituivano il patrimonio culturale dei patrioti» napoletani ma, a differenza di Cuoco, vide nei «lazzaroni» un’istintiva passione patriottica.
Per quanto riguarda Garibaldi, Rossi sfata il luogo comune – condiviso da Benedetto Croce – che vedeva nel ritiro a Caprera l’abbandono della vita politica. In realtà l’isoletta sarda fu il punto di ritrovo di democratici, socialisti, patrioti che volevano un’Italia diversa da quella nata dal compromesso regio. La fertile mente di Garibaldi non solo elaborò arditi progetti sociali ed economici volti a risollevare la penisola da secoli di incuria, ma si operò anche, con giovanile entusiasmo, affinché le potenze europee si accordassero su una pace stabile, degno coronamento delle lotte per l’indipendenza nazionale che avevano rivoluzionato la cartina del continente disegnata da Metternich nel 1815. L’abolizione della pena di morte, il suffragio universale, l’emancipazione femminile, il diritto alla salute dei cittadini, la protezione degli animali, l’arbitrato internazionale, la confederazione europea, fanno dell’eroe dei Due Mondi un nostro contemporaneo, anche se non tutte le sue iniziative andarono in porto.
Al ponderoso lavoro di Rossi avrei solo due obiezioni da muovere. La prima è un’eccessiva attenzione alle tesi di Denis Mack Smith che nulla di positivo concedono all’unità regia. In realtà, i vinti del Risorgimento sono tali soltanto perché non riuscirono a imporre il loro modello di stato nuovo, ma non lo sono se si considera che, grazie allo Statuto – con tutti i suoi difetti, garante delle libertà – furono attori politici (repubblicani, radicali, socialisti, cattolici) tutt’altro che irrilevanti e non sempre in positivo (fu, soprattutto, opera loro l’interventismo del «maggio radioso» e furono i loro disaccordi a spianare la strada al fascismo). La seconda obiezione riguarda la critica dell’annessione del Meridione al Regno sabaudo attraverso i plebisciti e non in virtù di un’assemblea costituente. Sennonché quest’ultima ha senso quando si tratta di rifondare una comunità politica «che già c’è» non quando se ne deve fondare una nuova e solo il nodo gordiano di una classe dirigente decisa e realistica può porre i popoli e le potenze straniere dinanzi al fatto compiuto, evitando i pericolosi dissensi dei partiti sui modi e gli istituti da adottare.
«Quella monarchia burocratica, rappresentativa, censitaria, era, un secolo fa, il solo ordinamento politico ed amministrativo, con cui potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di coesione nazionale. Date le condizioni spirituali delle nostre moltitudini agricole, dato il frazionamento politico delle popolazioni cittadine, e dati i profondi dislivelli di civiltà fra le diverse regioni, il problema della unificazione nazionale italiana, se non si risolveva per quella via, non si risolveva affatto». A scriverlo, qualche anno dopo la marcia su Roma, non fu Cesare De Vecchi di Val Cismon, ma un intellettuale militante socialista, liberale e libertario: Gaetano Salvemini.