di Gianluca Agostini da Il Corriere del Sud del 20 gennaio 2016 (via Rubbettino editore)
Con l’espressione “Gladio rossa” viene comunemente indicata una struttura paramilitare di natura clandestina, organizzata nel 1945 e sciolta nel 1974, costituita da ex partigiani e militanti del PCI. Il nome venne coniato dalla stampa presentando l’apparato come simmetrico ed opposto alla funzione anticomunista di “Gladio”, l’organizzazione segreta italiana inserita nella rete “Stay behind” coordinata dalla NATO, sorta nel secondo dopoguerra in quasi tutti i Paesi occidentali europei (inclusi paesi neutrali come Svizzera e Austria) allo scopo di contrastare un’eventuale invasione sovietica.
Sull’argomento negli ultimi anni vi sono state diverse pubblicazioni; fra queste possono essere ricordate il libro del Professore Gianni Donno, consulente della commissione Mitrokhin (e in precedenza della commissione stragi) e ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Lecce, La gladio rossa del PCI (1945-1967), edito da Rubbettino nel 2001, che presenta la prima documentazione organica sulla struttura paramilitare del PCI con ampio contributo in termini di documenti d’archivio.
Donno nella sua pubblicazione distingue due fasi, la prima delle quali tra gli anni 1945-1954, nella quale si determina la formazione dell’apparato paramilitare, sottolineando come al momento del disarmo delle disciolte formazioni partigiane le armi più moderne ed efficienti non furono restituite e venne invece creato un nucleo di azione clandestino (con base soprattutto nel centro e nel nord del paese), costituito in maggioranza di ex-membri delle brigate comuniste Garibaldi. Tale forza clandestina sarebbe stata direttamente dipendente dalle strutture dirigenti del Partito Comunista Italiano, in particolare da Pietro Secchia. Nelle intenzioni dei dirigenti del PCI tale forza poteva essere utilizzata con successo in un intervento armato volto alla costituzione di uno stato comunista in Italia, appoggiato da un sollevamento della popolazione.
Il fatto che Mosca fosse costantemente informata dell’esistenza della forza paramilitare è confermato in un rapporto dell’ambasciatore sovietico ai suoi superiori, 15 giugno 1945, il quale riferisce che «i partigiani del Nord continuano a nascondere le loro armi» e la circostanza è confermata anche da Victor Zaslavsky nel suo libro Lo stalinismo e la sinistra italiana (edito da Mondadori nel 2004) a proposito delle elezioni del 18 aprile 1948, alla vigilia delle quali il PCI riteneva che la DC non avrebbe riconosciuto un esito elettorale favorevole al Fronte popolare.
Zaslavsky sottolinea come l’apparato paramilitare fu tenuto in stato di allerta per tutta la durata della campagna elettorale, pronto ad intervenire in tale eventualità. Nell’imminenza delle elezioni il segretario del PCI Palmiro Togliatti chiese un incontro con l’ambasciatore sovietico Kostylev per chiedere «se si deve, nel caso di una o più provocazioni da parte dei democristiani, iniziare l’insurrezione armata delle forze del Fronte democratico popolare per prendere il potere». Nel corso del colloquio, che ebbe luogo il 23 marzo 1948 in un luogo segreto fuori Roma, riferì che i membri dell’apparato paramilitare erano stati allenati (soprattutto nell’Italia settentrionale), rassicurandolo sul fatto che prima di lanciare un’eventuale insurrezione armata avrebbe chiesto il consenso di Mosca. La risposta del governo sovietico giunse il successivo 26 marzo: Mosca fece sapere che soltanto in caso di attacco alle sedi del PCI i militanti avrebbero dovuto imbracciare le armi ma, «per quanto riguarda la presa del potere attraverso un’insurrezione armata, consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo».
La circostanza nella quale l’ipotesi di insurrezione generale fu prossima a realizzarsi si ebbe in occasione dell’ attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. Zaslavsky indica che l’organizzazione paramilitare del partito ritenne che fosse giunto il momento di agire, indipendentemente dal consenso di Mosca e il Paese fu teatro di disordini, occupazioni di fabbriche ed edifici pubblici, blocchi stradali, scioperi, requisizioni di mezzi militari, assalti alle forze dell’ordine, con un bilancio di morti e feriti (come è noto il rischio di un’insurrezione generale fu scongiurato dall’intervento dello stesso Togliatti dall’ospedale). Nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 luglio 1948 si affermò che «Il tentativo insurrezionale c’è stato, tanto che a Milano i carabinieri hanno fatto denunce per atto di insurrezione contro i poteri dello Stato. Dopo aver visto in un’ora assumere dai comunisti posizioni di battaglia, non si può negare l’esistenza di programmi prestabiliti» (riportato nel saggio, “I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi», di Aldo G. Ricci, in AA.VV, a cura di Fabrizio Cicchitto, L’influenza del comunismo nella storia, Rubbettino 2008, p. 86).
Una interessante prospettiva sull’argomento è quella del libro di Salvatore Sechi Compagno cittadino – Il PCI tra via parlamentare e lotta armata, edito da Rubbettino nel 2006, che investiga il tema della struttura paramilitare del PCI alla luce delle fonti d’archivio dei rappresentanti statunitensi in Italia.
Sechi rende noto come la prima relazione “occidentale” conosciuta sull’articolazione dell’organizzazione venne redatta a Milano, nel febbraio 1947, dal console statunitense. Quest’ultimo riportò che, «A capo dell’apparato vi sarebbero Longo, Sereni e Grieco, a loro volta comandanti dalla sezione Comintern di Ginevra-Lisbona. Le operazioni militari sono gestite dall’ex partigiano Cino Moscatelli. L’articolazione interna è suddivisa in vari nuclei e settori comandati dalla legazione sovietica in Milano di Via Filodrammatici 5» (S. Sechi, op. cit., p. 350).
Secondo le fonti americane la forza così costituita avrebbe contato tra i 130.000 e 160.000 miliziani, mentre altre stime ritenute più attendibili li valuterebbero in circa 77.000. L’organizzazione paramilitare comunista avrebbe ottenuto aiuti di uomini, armi e mezzi dalla Jugoslavia e sarebbe stata guidata da combattenti addestrati dai sovietici o da excomandanti partigiani. Secondo altre fonti l’apparato ebbe contatti anche con la Politicka skola soudruha Synka (trad It.: “Scuola politica del compagno Synka”), la formazione armata attiva in Cecoslovacchia.
Che le strutture paramilitari del partito fossero finalizzate a compiti offensivi lo dimostra il fatto che i militanti comunisti italiani venivano militarmente addestrati oltre cortina a tre livelli, guerriglia, sabotaggio e intercettazione, del tutto sproporzionati se si accettasse l’ipotesi dei soli compiti difensivi. La struttura paramilitare del PCI fu predisposta al fine di sostenere una possibile insurrezione armata in Italia ed, alla bisogna, per operare come “quinta colonna” in caso d’attacco da parte dell’Unione Sovietica sul continente europeo.