Adam Hochschild ricostruisce lo sterminio di massa del popolo congolese, le atrocità commesse e il saccheggio delle sue ricchezze naturali a opera di re Leopoldo II del Belgio
di Riccardo Michelucci da Avvenire del 26 giugno 2022
C’è voluto oltre un secolo perché un sovrano belga rompesse finalmente il muro del silenzio e dell’ipocrisia riconoscendo gli orrori commessi in Congo dal suo predecessore Leopoldo II a partire dalla fine del XIX secolo. «Esprimo il mio più profondo rammarico per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte», ha scritto re Filippo al presidente della Repubblica Democratica del Congo in occasione del sessantesimo anniversario dell’indipendenza del Paese. Eppure, già nel 1899, Joseph Conrad aveva fatto pronunciare quel famoso grido di fronte alle teste impalate degli indigeni («Che orrore! Che orrore!») al protagonista del suo Cuore di tenebra. Poco importa che sul piano giuridico sia corretto o meno definirlo “genocidio”. Resta il fatto che a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento la popolazione congolese fu dimezzata a causa degli omicidi di massa, della fame, della malattia e del lavoro forzato.
Quando ascese al trono belga nel 1865, il trentenne Leopoldo II si trovò a governare un piccolo Paese nelle vesti di monarca costituzionale: ogni suo volere era soggetto all’approvazione degli eletti. Il Belgio non era però sufficiente per soddisfare la sfrenata ambizione di un megalomane senza scrupoli che desiderava esercitare un potere assoluto e indiscusso, arricchendosi personalmente ed erigendo immensi monumenti alla sua gloria. Reclutò allora il celebre esploratore Henry Morton Stanley, il quale percorse la foce del fiume Congo gettando le basi di un complesso sistema di sfruttamento delle immense risorse naturali della foresta, in primo luogo l’avorio e il caucciù.
Mentre le grandi potenze europee si spartivano il continente africano, Leopoldo II si impossessò di un vasto e inesplorato territorio costruendosi una reputazione di filantropo ma avviando in realtà una delle più brutali colonizzazioni della storia. Ridusse in schiavitù la popolazione locale e saccheggiò le ricchezze del territorio trasformando il Paese in una sua colonia personale, al costo di circa dieci milioni di vite umane.
Nel suo ponderoso saggio Gli spettri del Congo. La storia di un genocidio dimenticato (Garzanti, pagine 496, euro 22,00), lo storico statunitense Adam Hochschild racconta la pianificazione e l’attuazione dello sterminio di massa del popolo congolese e il sistematico saccheggio delle grandi ricchezze naturali del Paese centrafricano. In un primo momento ci si concentrò sul commercio dell’avorio: gli abitanti dei villaggi, se non volevano essere sterminati, erano costretti a consegnare enormi quantità di zanne di elefante. Poi gli schiavi vennero obbligati a raccogliere il caucciù. Chi non riusciva a garantirne una certa quantità era punito con una violenza disumana: agli uomini venivano tagliate le mani o i piedi, alle donne erano asportati i seni, e non c’era alcuna pietà neanche nei confronti dei bambini. Contro i ribelli si ricorreva a spedizioni punitive, alla distruzione di villaggi, a massacri e torture indicibili. Qualsiasi abuso nei confronti dei nativi era consentito e anzi incentivato, al fine di governare con il terrore un’efficientissima macchina di sfruttamento.
Gli eccidi di massa – come sottolinea Hochschild – non furono neanche la principale causa di morte perché decine di migliaia di indigeni morirono a causa delle condizioni di lavoro bestiali e della fame dovuta all’abbandono dei raccolti. Nella prima metà del XX secolo una commissione governativa belga stimò che in pochi decenni le politiche leopoldine avevano letteralmente dimezzato la popolazione del bacino del Congo.
Un uomo in Congo guarda la mano e il piede mozzati della figlia di cinque anni, 1904 – WikiMedia
Ma per fortuna in una storia tanto cupa e terribile c’è spazio anche per la redenzione del genere umano. Gli spettri del Congo è il racconto di una crudeltà mostruosa ma anche il ritratto commovente di chi fu testimone di quel terribile olocausto e non si voltò dall’altra parte. Quel dramma favorì infatti la nascita di quello che lo storico definisce il primo grande movimento per la difesa dei diritti umani, grazie a un gruppo di viaggiatori, di idealisti e di missionari che riuscirono a mobilitare l’opinione pubblica internazionale contro i massacri di Leopoldo II.
Il primo di essi fu George Washington Williams, un pastore battista che arrivò in Congo per trovare una patria agli ex schiavi e vi trovò invece quella che definì «la Siberia del continente africano». Nel 1890 scrisse una serie di lettere al presidente statunitense Benjamin Harrison denunciando gli orribili abusi ai quali aveva assistito. Le sue accuse circostanziate furono riprese dalla stampa europea e americana ma Williams morì prematuramente e non ebbe la possibilità di organizzare una mobilitazione internazionale.
La sua battaglia fu però portata avanti da Edmund Morel, un giovane britannico che lavorava per una compagnia di navi a vapore coinvolta nel traffico commerciale tra il Belgio e il Congo. Un giorno si rese conto che le navi in partenza per l’Africa erano piene di fucili, di munizioni e di fruste e poi facevano ritorno cariche di avorio, di caucciù e di altre merci preziose. Intuì cosa stava accadendo e decise di lasciare il suo lavoro per indagare su quello strano commercio. Insieme ad altre figure coraggiose, come l’afroamericano William Sheppard e il console irlandese Roger Casement si batté a rischio di enormi pericoli per mostrare al mondo il dramma in atto e dette vita a una campagna mondiale che riuscì a coinvolgere anche grandi celebrità dell’epoca, tra cui gli scrittori Arthur Conan Doyle e Mark Twain.
Leopoldo II fu infine costretto dalle pressioni internazionali ad abbandonare il controllo del Congo. Nell’agosto del 1908, prima di cedere ufficialmente la sua colonia personale al governo del Belgio, fece bruciare i suoi archivi coloniali nel tentativo di cancellare quei crimini per sempre. Ma non ci riuscì.