Un Paese cementato dal fango delle trincee della Prima guerra mondiale. Ma nella chiave dell’identità nazionale italiana, quell’evento epocale secondo Ernesto Galli della Loggia è stata un’occasione mancata: «La Grande guerra – spiega lo storico – amalgamò l’Italia sotto vari punti di vista. Innanzitutto per quanto riguarda la popolazione. La leva all’epoca era spesso la sola occasione per i ceti più popolari di vedere altri luoghi. Ma non solo la guerra fece conoscere parti del Paese sconosciute: la vita fianco a fianco per tre anni nelle trincee unificò la popolazione. Ci fu poi anche un amalgama di tipo politico. È un elemento su cui giustamente insisteva Giorgio Rumi: di fatto i cattolici si riconciliarono con lo Stato nazionale proprio in occasione della guerra. Per la prima volta nella storia italiana infatti un ministro cattolico, Filippo Meda, entrò in un governo. E infine la Grande guerra fece vivere a una generazione nuova di italiani l’epopea risorgimentale».
Di Alessandro Beltrami da Avvenire del 21 giugno 2014
Potremmo dire quindi che la Grande guerra ha fatto gli italiani?
«Sì, non è riduttivo. Basta vedere quanto accadde nel 1921 durante il viaggio in treno del Milite ignoto da Aquileia al Vittoriano. Un autentico fenomeno di popolo. Con la guerra vinta l’Italia dimostrò di essersi consolidata come Paese. All’inizio del conflitto c’erano infatti molti dubbi sulla sua tenuta. Compì un’impresa tecnica ed economica notevole riuscendo a vincere l’Austria-Ungheria, uno dei Paesi più forti del mondo. Per una nazione unita da soli 50 anni fu cosa notevolissima. E ne aumentò l’autostima. Poi l’insulsa retorica della “vittoria mutilata” sbandierata dai nazionalisti dissipò questo patrimonio. Un mito su cui costruirono la propria fortuna i fascisti, che sulla Grande guerra misero un’ipoteca di parte, quando invece non apparteneva a loro ma a tutti gli italiani. In questo giocò un ruolo decisivo però anche il pacifismo antipatriottico dei socialisti, che aiutò a consegnare il Paese nelle mani di Mussolini. In sostanza, se la guerra nel suo farsi cementò gli italiani, la sua narrazione, monopolizzata dal fascismo, contribuì alla loro disgregazione».
Sta emergendo dai cassetti delle famiglie una grande mole di materiale: diari, lettere, fotografie, cimeli. Molti ora vengono raccolti in archivi «on line». Perché la memoria della Grande guerra si è conservata così forte?
«Perché chi l’ha fatta la ricordò come una cosa grande della sua vita, senza termini di paragone. In un mondo contadino fu un’esperienza diversa da tutti i punti di vista. Pensi soltanto all’alimentazione: sotto le armi decine di migliaia di italiani scoprirono per la prima volta la barretta di cioccolata. Poi nei vent’anni successivi la guerra fu glorificata. Fu un’atmosfera di celebrazione dell’evento lunga, permanente e capillare, su cui si fondò sistematicamente la retorica del fascismo. Anche questo fece sì che i reduci e le famiglie conservassero quei cimeli. Ma da qui si coglie pure perché tutto questo con la Seconda guerra mondiale non sia successo».
Però il contenuto di questi diari è molto lontano dai toni della celebrazione…
«Il pericolo è proprio che la minuzia dolorosa del ricordo cancelli il significato politico dell’evento. Che la Prima guerra mondiale, cioè, sia ridotta soltanto alla dimensione dell’inutile strage. Intendiamoci: Benedetto XV era autorizzato a chiamarla così. E certamente lo fu anche, ma non solo. In realtà le memorie personali, ed è il loro gravissimo limite, non possono dirci nulla sul significato storico politico complessivo. Ci parlano delle traversie dei singoli protagonisti ma non assorbono la qualità del fatto storico».
A suo avviso questi archivi possono però dare un contributo nuovo alla ricerca o hanno soprattutto un valore di monumento, al di là del loro contenuto?
«Io credo che ci dicano poco o nulla. Dalla lettura di questi documenti spesso abbiamo solo la conferma che la guerra è una cosa sporca, brutta, piena di freddo. Il racconto della vita di un individuo è senza dubbio interessante, ma di per sé. Suscita la nostra curiosità ed empatia, però sul piano storico non aggiunge nulla. E invece molti insegnanti e professori portano queste cose in classe pensando sia un modo sufficiente per studiare la Grande Guerra».
Con il crollo del fascismo cosa accade alla narrazione della Grande guerra?
«Si è continuato a festeggiare il 4 novembre come giorno della vittoria, ma l’idea di nazione italiana è stata colpita a morte. Si è preferito non parlarne, anche perché sembrava difficile farlo senza cadere nei toni usati dal regime fino a pochi anni prima. Su quel fatto calò il silenzio».
Le memorie personali possono costituire una nuova narrazione della Grande guerra, su cui poter ricostruire un tassello di memoria e identità nazionale?
«Io non credo. Perché non penso che le memorie di un soldato italiano, tedesco, russo o francese siano poi così diverse. Le trincee erano le stesse, come le mitragliatrici e le pulci. No, non credo ci sia una specificità nazionale. Sono la vittoria o la sconfitta a costruire una memoria collettiva, non le sofferenze dei singoli soldati».