di Ernesto Galli della Loggia dal Corriere della Sera del 9 luglio 2024
Quella che oggi in Italia viene considerata l’egemonia della sinistra c’entra ben poco con l’idea che ne aveva Gramsci. È un’altra cosa. È il fortissimo dislivello che esiste nel nostro discorso pubblico, e in genere in tutti gli ambiti dell’ufficialità e dei suoi modi, tra la presenza di stereotipi lessicali, valori accreditati e luoghi comuni ascrivibili alla sinistra e quelli ascrivibili alla destra, in pratica del tutto assenti. Di fatto, insomma, la retorica della Repubblica è tutta di segno progressista: e dunque, ad esempio, il buonismo ha sempre la meglio sul realismo, le ragioni del cuore prevalgono ogni volta sulle ragioni del merito, il richiamo alla Costituzione è invariabilmente entusiasta, ogni richiamo storico obbedisce al politicamente corretto, e sempre puntuale, infine, scatta il meccanismo delle riverenze e delle citazioni dovute al Palazzo. Ma in tutto ciò, ripeto, l’egemonia non c’entra. C’entrano le origini storiche della Repubblica.
E c’entra anche il banale meccanismo del vuoto inevitabilmente riempito, allorché nel corso della prima Repubblica una vulgata e un’etichetta anche lessicale di sinistra si affermò progressivamente per effetto dell’eclisse di tutto ciò che di sinistra non era. Ma alla fine, più di ogni altra cosa ha pesato e pesa, io credo, l’antico conformismo italiano e la pigrizia culturale di troppi appartenenti al ceto degli intellettuali addetti all’universo della comunicazione, del cinema e della formazione delle idee.
Adattarsi all’aria che tira, al bon ton ideologico-lessicale dominante, è sempre la cosa più facile. La conseguenza è che nel nostro Paese la discussione pubblica e il dibattito culturale sono troppo spesso di un grigiore e di un’uniformità sconfortanti.
Un cambiamento, un deciso cambiamento, sarebbe dunque quanto mai opportuno. Sicché non avrei difficoltà ad ammettere che proprio ad un tale cambiamento potesse mirare il governo nelle nomine riguardanti le numerose istituzioni che operano nell’ambito di cui stiamo discutendo. Perché no? Ad una condizione tuttavia: che ci s’intenda su che cosa significhi — o meglio su che cosa non significhi, non debba assolutamente significare — il cambiamento in questione.
Esso non deve assolutamente significare «levati tu che mi ci metto io». Cioè non deve assolutamente consistere nel sostituire all’«amichettismo» di una parte l’«amichettismo» dell’altra: anche se si tratta di «amichetti» bravi e meritevoli, come senz’altro è il caso di alcune nomine (non tutte!) già fatte dal governo Meloni. Bisogna insomma che chi di dovere tenga bene a mente un paio di regole auree tratte dall’esperienza storica: in particolare dall’esperienza di chi di queste cose se ne intendeva e qualcosa di somigliante all’egemonia cercò di promuoverla, in parte anche riuscendoci. Sto parlando naturalmente del Partito comunista di una volta. Ed ecco le due regole che quell’esperienza suggerisce (per brevità userò anche io il termine egemonia per designare l’obiettivo che in realtà, come ho detto sopra, oggi è un semplice riequilibrio).
Regola numero 1: l’egemonia non si realizza accaparrandosi i posti ma rinunciandovi. La spiegazione è fin troppo ovvia: l’autorevolezza – e quindi l’effetto verso l’esterno – di una qualsiasi opinione a te favorevole ma sostenuta da chi è noto non appartenere alla tua parte è enormemente superiore all’autorevolezza della medesima posizione sostenuta da uno che è noto, invece, per essere organicamente della tua stessa parte. C’è in proposito un esempio memorabile, quello della Sinistra Indipendente: un gruppo di personalità di chiara fama, non comuniste, ma scelte ed elette al Parlamento a partire dagli anni 60 del secolo scorso con i voti del Pci, le quali, pur presenti con un proprio gruppo parlamentare, tuttavia, nell’aula seguivano regolarmente le indicazioni del Pci. Che in tal modo rinunciava sì a qualche decina di posti per i suoi, ma in compenso acquistava l’immagine di una forza politica aperta, desiderosa del contributo di tutti i veri democratici, nonché estranea ad ogni poltronificio. Un guadagno non da poco come si capisce. Insomma, se si proviene da territori politici per mille ragioni collocati ai margini della legittimazione democratica la lezione comunista resta decisiva. Non si può pensare di fare tutto da soli a forza di vittorie elettorali: i «compagni di strada» sono essenziali. In una democrazia per vincere davvero devi insieme convincere, e nulla convince come una schiera di «convinti».
Infine la regola numero due: per realizzare comunque un’influenza che duri (per l’egemonia neppure a parlarne) i posti non bastano, ci vogliono anche le idee. Non dico i «Quaderni del carcere» ma almeno qualche analisi generale serve, capace di spiegare un poco il presente; qualche valore in grado di parlare anche a chi non ti vota; qualche ricostruzione del proprio pedigree che vada oltre i pur rispettabilissimi Gentile e Prezzolini. Perché mostrare di venire da lontano qualcosa pur significa. Senza contare che fa sempre un certo effetto: se non altro serve a mettere a tacere quelli che vorrebbero vederti sempre come appena uscito dal ridotto della Valtellina. Alla destra che ci governa tutto ciò sembra davvero un obiettivo tanto disprezzabile?