Sollecitato da un originale festival della lettura, l’ormai decennale “Naxoslegge”, organizzato dalla vulcanica Fulvia Toscano nella bellissima località Giardini Naxos, ho presentato su Zoom qualche giorno fa tre volumi di autori apparentemente molto diversi tra loro, ma accomunati dalla loro originale diversità e, soprattutto, dall’estrema lontananza di tutti e tre dall’italiano medio di oggi. Parliamo di Raimondo Franchetti, esploratore Nella Dancalia etiopica, di Mario Appelius, testimone dell’ Asia tragica e immensa e di Luigi Barzini senior, autore di uno strepitoso reportage, Dall’Impero del Mikado all’Impero dello Zar, il primo edito da Iduna e gli altri due da OAKS.
Curato dal giornalista del Tg2 Miska Ruggeri, Nella Dancalia Etiopica è il resoconto, dettagliato e appassionante, di un’avventura tutta italiana, organizzata e vissuta dal Barone
Raimondo Franchetti (1889-1935), rampollo di uno delle più ricche famiglie italiane, cacciatore, viaggiatore, volontario nella Grande Guerra, che fu uno dei maggiori esploratori italiani. La sua morte, in circostanze mai chiarite, ne ha fatto un mito, subito paragonato a Lawrence d’Arabia. Certo, la qualità della scrittura è assai diversa – I sette pilastri della saggezza sono un’opera capitale, Nella Dancalia etiopica, scritto peraltro con l’apporto fondamentale di Alberto Pollera, un professionale resoconto di viaggio e nulla più – ma l’impresa compiuta dal barone Franchetti – l’esplorazione dell’arida e bollente depressione dancala, uno dei luoghi più inospitali del pianeta – è ugualmente memorabile. Uomo d’azione più che di lettere, merita un posto d’onore tra i grandi italiani, testimone di un’epoca non lontanissima, ma ormai definitivamente tramontata. Per una coincidenza che Jung definirebbe “significativa”, poco più di un anno fa è stato trovato un resoconto visivo della spedizione, un 9,5 mm Pathè che ha spinto l’Università di Udine a frugare negli archivi dell’Istituto Luce, dove, alla fine, sono stati trovati i negativi del filmato della spedizione, sottoposti immediatamente a una delicata operazione di restauro che, speriamo, ci restituirà nei prossimi mesi il fil completo di quella straordinaria e massacrante avventura.
Gli altri due volumi, invece, non sono frutto della penna di un esploratore, ma della macchina per scrivere del giornalista-inviato, figura ormai scomparsa, sostituita da ricevitore/zerbino di comunicati stampa. Come ricorda il curatore di entrambi i volumi, lo scrittore e studioso Paolo Mathlouthi, Luigi Barzini e Mario Appelius appartengono ad una generazione ormai perduta, quella del giornalismo eroico, per il quale raccontare la realtà equivaleva a riempirsi gli occhi e l’anima con l’immensità e la diversità dei luoghi, dei climi, delle culture, assaporando quella che Claudio Magris chiama la vertigine del mondo, senza sottrarsi, se il caso lo richiedeva, al pericolo insito nell’avventura.
Eredi inconsapevoli dei grandi esploratori del XIX secolo, hanno attraversato il campo di battaglia del Novecento percorrendo in lungo e in largo con i mezzi più disparati, a piedi, a cavallo, a dorso di cammello, contrade impervie ed inaccessibili, rimaste spesso estranee alla Modernità o dilaniate dai tumulti di guerre e rivoluzioni. Profondamente diversi tra loro per indole e temperamento, erano accomunati da un idem sentire: avevano la stessa incoscienza e le medesime motivazioni, quel misto di curiosità scientifica, inadeguatezza alla normalità, voglia del diverso, gusto per la solitudine, amore per l’immensità e la lontananza che ne fanno senza dubbio due scrittori di razza. Ingiustamente condannati all’oblio in virtù delle loro scelte controverse, meritano ora di essere riscoperti, ammirati e imitati.
Franchetti, Appelius, Barzini: tre grandi protagonisti della storia e del giornalismo italiano, le cui opere non sono soltanto testimonianze di un’altra, gloriosa epoca, ma, e lo scrivo da lettore, vanno apprezzate per la freschezza delle loro testimonianze e la scioltezza del loro stile, che andrebbe insegnato nelle odierne, sedicenti, “scuole di giornalismo”, più attente a imporre i canoni del “politicamente corretto” che interessate alla bella scrittura.