di Giovanni Bianconi dal Corriere della Sera del 13 ottobre 2023
La mattina del 14 marzo 1972, poche ore prima che Giangiacomo Feltrinelli saltasse in aria, fu lui a consegnare all’editore rivoluzionario l’esplosivo che lo uccise: «Quando sui giornali uscì la notizia con la sua foto lo riconobbi e mi sentii in colpa; non tanto per avergli dato la dinamite, ma perché se fossi stato lì, come mi aveva chiesto in altre occasioni, non sarebbe morto».
Seduto sul divano di una casa affacciata sul golfo del Tigullio, ospite di amici, un signore di 85 anni racconta i retroscena della fine di Feltrinelli e di alcuni episodi agli albori della lotta armata in Italia. Si chiama Vittorio Battistoni, originario di Chiavari, ingegnere meccanico in pensione, iscritto in gioventù al Partito comunista ma con tendenze anarchiche che lo portarono, dopo il 1969, ad avvicinarsi ai Gruppi di azione partigiana fondati dall’editore milanese e alle prime Brigate rosse, in cui non ha mai militato. Con i Gap, invece, ci fu una collaborazione durata un paio d’anni, nei quali è stato anche l’autista di Feltrinelli accompagnandolo negli spostamenti segreti in Italia e all’estero, mentre da clandestino tentava di organizzare l’offensiva antigolpista e rivoluzionaria della quale è rimasto vittima.
La testimonianza di Battistoni, emersa dopo mezzo secolo di anonimato, costituisce il cuore di Gappisti (DeriveApprodi), il libro dello storico Davide Serafino che ricostruisce la parabola della rete tessuta da Feltrinelli, contemporanea alla nascita di altre bande armate, dal gruppo genovese XXII Ottobre alle Br.
«Ho conosciuto Feltrinelli a casa dell’avvocato Lazagna — racconta l’ingegnere dalle tendenze anarco-comuniste —, poco tempo dopo la strage di piazza Fontana». Giambattista Lazagna, genovese, già comandante partigiano e dirigente del Pci in Liguria, fu arrestato in un paio di procedimenti per terrorismo, e in seguito scarcerato e assolto.
«Feltrinelli — continua Battistoni — era convinto che avrebbero tentato di tirarlo dentro la storia delle bombe neofasciste attribuite agli anarchici, così come dei progetti di colpo di Stato che erano ben visibili dietro quegli attentati; non era l’unico a parlarne, in quel periodo, ma il solo intenzionato a fare qualcosa di concreto per evitarlo. Per questo accettai di aiutarlo. Tramite Lazagna mi fece avere i soldi per comprare una Fiat 850 celeste con la quale l’ho portato tante volte a Roma, Firenze, Bologna, Milano, ma anche all’estero, in Austria e Germania. Lui per un certo periodo spariva, poi tramite intermediari mi fissava un appuntamento e io mi facevo trovare lì. In macchina, più che parlare, leggeva e scriveva. Arrivato a destinazione incontrava persone, ma io non assistevo ai suoi colloqui, né chiedevo chi avesse visto e che cosa si fossero detti. Qualche volta ho avuto l’impressione che avesse consegnato dei soldi, ma non facevo domande».
Battistoni descrive un uomo generoso e immerso in un’attività segreta che, affiancata a quella pubblica di editore, rappresentava anche l’occasione di emanciparsi rispetto alla sua condizione di privilegiato: «Non era certo un esaltato, né le sue analisi sbagliate. Io ero affascinato dalla sua personalità, dai racconti sull’infanzia vissuta in un una sorta di mondo dorato durante il fascismo e la guerra, dalla volontà di riscatto di cui si fece carico quando un contadino che lavorava nella tenuta di famiglia in Toscana gli aprì gli occhi parlandogli di giustizia e di socialismo. Voleva restituire almeno in parte ciò che aveva avuto. Dopodiché penso pure che guidare una rivoluzione non fosse un compito adeguato a lui; con i soldi e le disponibilità che aveva, avrebbe potuto finanziare e agevolare tanti progetti, fornendo un contributo alla causa più che pretendere di diventarne la guida».
Le prime azioni a cui Battistoni ha partecipato furono i comunicati di «Radio Gap», diffusi via etere sovrapponendosi alle trasmissioni radio e tv. Nell’aprile 1970, grazie a una ricetrasmittente e a un alimentatore forniti dall’anarchico tedesco Wolfgang Mayer e sistemati su un’auto presa in affitto, in alcuni quartieri di Genova la voce di Feltrinelli registrata con un mangiacassette interruppe un programma televisivo condotto da Tito Stagno, invitando i cittadini a una mobilitazione antifascista. Alla guida dell’auto c’era l’ingegnere: «Su un piccolo raggio d’azione riuscivamo a trasmettere con una potenza superiore a quella dei segnali Rai, e così potevamo intrometterci. Purtroppo quella prima audiocassetta con la voce di Feltrinelli non l’ho conservata, ma ne ho altre quattro registrate da compagni diversi».
Dopo i proclami lanciati via radio, replicati in varie città, qualcuno disse che sarebbe stato utile disporre di esplosivo e Battistoni si offrì per recuperarne una discreta quantità: «Dalle parti di casa mia stavano costruendo una strada utilizzando la dinamite per tagliare la roccia; per due o tre giorni mi appostai sulla montagna, e col binocolo verificai che di notte nel deposito dove tenevano i candelotti non rimaneva nessuno di guardia. Andammo in quattro o cinque, aprii la porta con un piede di porco e prendemmo due quintali di esplosivo già stipato nelle scatole. Ce lo siamo divisi io e Lazagna; io una buona metà la diedi al tedesco, il resto lo conservai in cantina».
A marzo del 1972, quando Feltrinelli decise di far saltare un traliccio alle porte di Milano per oscurare la città in risposta a una manifestazione della «maggioranza silenziosa», quella dinamite tornò utile. «Dopo — ricorda Battistoni — capii che voleva un’azione eclatante per proporsi con più forza ad altri gruppi coi quali era in contatto, come le Br o Potere operaio. Una volta a Voghera parlammo di aspetti tecnici, io da appassionato di orologi gli proposi di usarne uno da polso per costruire un timer, e a Feltrinelli l’idea piacque molto. Poi il 14 marzo 1972 mi diede appuntamento alla stazione di Lambrate, dove io arrivai con venti chili di esplosivo chiusi in una valigia. Mi aspettava con un furgoncino e insieme siamo andati a Segrate per un sopralluogo, è sceso per guardare il traliccio e dopo un po’ siamo ripartiti. Mi ha lasciato a una stazione della metro perché aveva fretta: “Oggi ho i minuti contati”, diceva. Io gli avevo spiegato come confezionare il timer, con tanto di disegno, pur sapendo che era meglio una sveglia o qualunque altro meccanismo; usare l’orologio da polso facendo un buco da un millimetro sul vetro senza toccare il quadrante era inutilmente rischioso».
Secondo la ricostruzione di Battistoni, la fretta e l’inesperienza furono fatali a Feltrinelli che, tornato la sera a Segrate con altri complici, saltò in aria per un «incidente sul lavoro» di cui l’ingegnere venne a sapere dai giornali: «Su “l’Unità” c’era la notizia della morte di un dinamitardo accanto a un traliccio, mentre sul “Corriere della Sera” era uscita anche la fotografia, e lo riconobbi immediatamente. Io non ero con lui perché contrario a quel tipo di azioni, ero più favorevole a iniziative come il sequestro-lampo di un dirigente della Sit Siemens compiuto dalle Br un mese prima, ma vedendo com’era andata piansi per il rammarico. Se avessero seguito le mie istruzioni, tutto avrebbe funzionato; se avessi realizzato io il timer, non avrebbe provocato l’innesco prima dell’ora fissata; se fossi stato lì sarei salito io sul traliccio e nessuno si sarebbe fatto male».
Al funerale Vittorio Battistoni non andò — «troppi fotografi, come alle manifestazioni» — e il cruccio di aver contribuito, sia pure inconsapevolmente, alla morte dell’editore non l’ha abbandonato per molto tempo. A casa sua non bussarono mai né inquirenti né investigatori, solo due militanti dell’estrema sinistra incaricati di una sorta di «inchiesta interna» sulla fine del compagno editore: «Ho riferito tutto, spiegando che non c’erano complotti o misteri dietro quell’incidente, solo un po’ d’imprudenza e di imperizia».
Cinquantuno anni dopo, il «caso Feltrinelli» è chiuso e racchiuso nella storia dei Gap, da cui adesso affiora la figura di Battistoni (mentre altre preferiscono restare nell’ombra) per rendere testimonianza di una vicenda contemporanea al terrorismo nero e prodromica di quello rosso. «Un fenomeno minore ma significativo nel contesto della lotta armata in Italia — commenta l’autore del libro Davide Serafino —, che ha fatto da apripista a scelte future di altri, ed è utile conoscere al di là della figura del suo fondatore».