Derubati, abbandonati e traditi. Una volta di più. Lo Stato italiano — tramite la Cassazione a Sezioni unite — ha deciso che gli esuli istriani, fiumani e dalmati non hanno più diritto ad alcuna compensazione per i beni perduti nelle terre cedute alla Jugoslavia con il Trattato di Pace del 1947.
da Destra.it del 9 aprile 2014
La Corte doveva decidere sul ricorso presentato da alcuni esuli, e loro eredi, che avevano fatto causa alla presidenza del Consiglio giudicando le somme versate loro come indennizzo tardive — stabilite solo con il trattato di Osimo del 1975, reso esecutivo negli anni ’80 — e «assolutamente irrisorie». Nel loro ricorso le associazioni degli esuli facevano riferimento alla sentenza del 2004 della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo sui risarcimenti da parte della Polonia dopo gli accordi presi con le Repubbliche Sovietiche.
Ora la Cassazione (sentenza 8055, udienza del 25 marzo) riconosce che vi sia «un diritto soggettivo della parte nei confronti della pubblica amministrazione», ma questo «non limita le scelte del legislatore nel determinare la misura dell’indennizzo» che è un intervento «ispirato a criteri di solidarietà della comunità nazionale», e non a «un obbligo di natura risarcitoria per un fatto illecito, non imputabile allo Stato italiano».
Per i giudici della Suprema corte fu l’allora Jugoslavia comunista, a procedere all’espropriazione dei beni. Quindi lo Stato italiano «non è autore della violazione», «poichè la privazione dei beni dei cittadini italiani si è verificata a opera di uno Stato straniero, al quale il territorio su cui essi si trovavano è stato ceduto dall’Italia, soccombente nel conflitto bellico». E in questo – hanno osservato le Sezioni Unite – il caso è diverso da quello giudicato dalla Corte Europea, che si riferisce a un accordo tra due Stati usciti vincitori dal conflitto, riguardante la frontiera orientale della Polonia e gli accordi con l’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania.
Le Associazioni degli esuli hanno annunciato che ricorreranno a Strasburgo. La questione non è chiusa.