Francesca Pierantozzi da “il Messaggero” del 21 luglio 2021
La chiamano Indiana Jones anche se con i suoi tailleur tinta su tinta, la messa in piega sempre impeccabile, il trucco discreto e un sorriso contagioso, Emmanuelle Polack non sembra a prima vista avere il physique du role dell’avventuriero scapestrato. «Sono una cacciatrice di quadri» dice lei quando la stuzzicano.
Da qualche mese il suo ufficio è dentro al Louvre. A lei, storica dell’arte, specializzata nel mercato dell’arte durante l’Occupazione, il più grande museo del mondo ha affidato una missione difficile quasi quanto quelle di Harrison Ford: ritrovare le opere che furono sequestrate agli ebrei dai nazisti o dalla Francia collaborazionista di Vichy e restituirle alle famiglie.
Si calcola che furono circa 100mila le opere d’arte trasferite dalla Francia in Germania durante l’Occupazione: fu il terribile bottino della spoliazione degli ebrei. Molti proprietari furono deportati e non tornarono mai dai campi. In molti altri casi le famiglie non erano al corrente delle collezioni dei loro padri o nonni, ingoiate anche loro nel silenzio che seguì all’orrore.
Circa 60mila opere sono state recuperate, 40 mila sono scomparse. «Molte sicuramente distrutte, ma tante altre finite in un mercato parallelo, rivendute, più volte». E magari arrivate nei grandi musei, nascoste nelle riserve o esposte al pubblico, ignaro della loro storia. «Ogni quadro spoliato è prima di tutto la storia di un destino, di una famiglia, per questo quando comincio a seguire le tracce di un’opera, lo faccio sempre con una grande emozione» racconta Polack.
Un anno fa, il direttore (uscente) del Louvre Jean-Luc Martinez le ha affidato la missione più delicata: censire tutti gli acquisti realizzati dal museo tra il 1933 e il 1945. Raramente nella loro storia i musei francesi hanno tanto arricchito le loro collezioni come durante quel buio periodo della storia. Quante di queste opere erano il frutto dei sequestri nelle case degli ebrei? «Naturalmente non tutto quanto fu acquistato in quegli anni proviene dai sequestri» ha detto Martinez «ma è necessario chiarire le origini di diverse centinaia di opere».
Tra queste, tele e disegni, tra gli altri, di Eugène Delacroix, Jean-Louis Forain, Constantin Guys, Henri Monnie. Emmanuelle si dice «onorata» dell’incarico che le è stato affidato. Frequenta biblioteche, archivi, spulcia registri e indaga nella memoria portandosi sempre dietro una cartella di cuoio e un quadernone da ricercatore. «Lavora come un detective» racconta Pauline Baer de Perignon, che le ha chiesto di aiutarla per ritrovare i quadri della collezione del bisnonno.
Emmanuelle era destinata a una carriera accademica. Poi la svolta, in un giorno del 2014, mentre finisce di svolgere il lavoro di ricerca sulla sua tesi di dottorato sul mercato dell’arte negli anni Trenta e Quaranta. Sfoglia un registro di beni spoliati conservato al memoriale della Shoah a Parigi e un attimo prima di chiudere tutto lo sguardo finisce su un nome, il suo: Polack. L’indirizzo coincide, è quello dove abitavano i suoi nonni. Sapeva che erano stati deportati e che suo nonno era morto a Auschwitz, ma non sapeva che avessero in casa quei quadri, quelle opere, tutte elencate in quel registro.
Ha cominciato così la sua prima caccia: quella delle opere sequestrate alla sua famiglia. Un lavoro per recuperare dei beni, ma soprattutto per recuperare una storia, una memoria. Oggi ammette che quella scoperta e quella ricerca «sono state il motore» che l’ha spinta a diventare l’Indiana Jones dei beni razziati. È una delle rarissime persone a saper indicare alle famiglie come fare, dove si trovano le fonti, quali sono i registri.
Ormai conosce a perfezione ogni corridoio degli archivi dello stato federale tedesco a Coblenza e degli archivi diplomatici della Courneuve in Francia, e sa maneggiare come nessun altro i registri delle acquisizioni dei musei francesi. «Il tempo stringe dice oggi perché la memoria delle famiglie di chi fu spoliato si sta a poco a poco spegnendo».