“Carri armati nemici fatto irruzione sud Divisione Ariete. Con ciò Ariete accerchiata, trovasi 5 km nord-ovest Bir-el-Abd. Carri Ariete combattono”. È questa una delle frasi più eroiche, belle, epiche, commoventi che la storia ci ha tramandato. È l’ultimo messaggio del marconista di ciò che restava della Divisione Ariete, a El Alamein, il 4 novembre 1942. I nemici l’hanno accerchiata, ma nonostante tutto suoi ultimi uomini combattono.
Queste parole, e tutto ciò che vi è stato attorno, sono state ricordate e celebrate ogni anno da quel 1942. E non dai “fascisti”, o “nazifascisti”. Eppure quest’anno c’è stato chi, come Ivan Scalfarotto, senatore renziano, ha definito la memoria di El Alamein “nazifascista”. Appresso a lui un codazzo di odiatori seriali dell’identità nazionale e perfino alcuni media, che hanno parlato di “truppe nazifasciste comandate dal gerarca nazista Rommel”.
Spiace però ricordare a Scalfarotto e al suo corteo di gente con 4 in storia che la memoria di El Alamein è un patrimonio di tutta la nazione italiana, da sempre. Da quando quella nazione che l’anno successivo, per volontà del re Vittorio Emanuele III, prese la decisione più dura della sua storia, l’armistizio, il passaggio dalla parte delle Nazioni Unite e – conseguentemente – la guerra civile. E che poi divenne repubblicana, superò l’umiliazione del trattato di pace imposto dagli ex nemici e con la ricostruzione, interna e internazionale, divenne uno dei pilastri della nuova Europa. Quel “mancò la fortuna, non il valore” che è l’epitaffio dell’impresa nordafricana delle armate italotedesche è qualcosa che aveva riunito sempre gli italiani nel rispetto.
Sì, quell’Italia della “costituzione antifascista” (termine alquanto tirato per la giacchetta, ma qui ci sta), celebrò i suoi caduti, i suoi eroi, a El Alamein e non si permise mai di dire che erano “nazifascisti”. Ma si pensi anche ai film girati nell’Italia del dopoguerra, non certo in un clima disposto a celebrare l’eroismo (soprattutto con i produttori impegnati a sostenere l’esatto opposto, secondo i desiderata degli uffici Psy-Op degli angloamericani): “Divisione Folgore”, di Duilio Coletti (1954); “El Alamein (Deserto di gloria)”, di Guido Malatesta (1957); “La battaglia di El Alamein”, di Giorgio Ferroni (1969) e infine “El Alamein – La linea del fuoco”, regia di Enzo Monteleone (2002), che riesce perfino a strappare qualche critica positiva in un panorama cinematografico italiano dominato da penne di sinistra.
Ma per mettere a tacere le scandalose affermazioni degli odiatori della nazione, occorre sbattere sul tavolo l’asso: banco vince e tutti zitti. E’ il profilo di colui che fu il principale protagonista della memoria di quell’epica, sfortunata battaglia: Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo. Nel 1942 era maggiore del Regio Esercito, nella specialità dei fegatacci, il Genio guastatori, e partecipò alla battaglia di El Alamein.
Era nato a Nerviano nel 1896, da nobile famiglia. Iniziò a studiare ingegneria, poi s’arruolò volontario nella Grande Guerra, guadagnandosi una medaglia di Bronzo al valor militare per le sue imprese da pontiere lungo l’Isonzo. Chiese poi d’essere trasferito ai flammieri, specialità alquanto rischiosa, iniziando là anche la sua carriera di illustratore: creò infatti lo stemma di quella specialità del Genio. Nel dopoguerra si trasferì in Africa dove lavorò come apprezzato ingegnere e architetto in tutto il bacino del Mediterraneo orientale. Nel 1931 fu richiamato sotto le armi, partecipando alle campagne coloniali fra le due guerre (Libia e Africa Orientale, dove fu nuovamente decorato) e quindi fu di nuovo in Libia, nel Genio Guastatori. In Nordafrica fu decorato da Erwin Rommel in persona (quel Rommel che, come dicevamo, fu definito “gerarca nazista”, ignorando che venne contattato dai congiurati che volevano assassinare Hitler nel 1944 e fu condannato a suicidarsi per questo, proprio dal dittatore tedesco). Dopo la partecipazione alla battaglia di El Alamein, riuscì a tornare in Italia, dove continuò a comandare reparti del Genio Alpini, fino all’armistizio. Nel settembre 1943 Caccia Dominioni sfuggì alla cattura da parte dei tedeschi e si diede alla macchia, entrando nella Resistenza.
Ebbene sì. Paolo Caccia Dominioni fu anche partigiano. Prima nella 106^ brigata Garibaldi, poi come capo di Stato Maggiore del Corpo lombardo Volontari della Libertà. Fu catturato più volte ma riuscì sempre a fuggire.
Dopo la guerra, Caccia Dominioni si dedicò al compito pietoso di raccogliere le salme disperse nel deserto di El Alamein. Ingegnere e architetto, oltre che finissimo illustratore, disegnò personalmente il sacrario italiano in quei luoghi e lo stesso fece per molti altri luoghi della memoria nel nostro paese, fino alla morte, nel 1992.
Nel 2002, sessantesimo della Battaglia, l’allora presidente Ciampi decorò alla memoria Paolo Caccia Dominioni di medaglia d’Oro, proprio per il suo lavoro di recupero delle salme: 2.500 italiani e 300 di altre nazionalità secondo quanto recita la motivazione, segno che l’onore di combattente non guarda alla divisa del caduto che ha davanti, ma lo rispetta punto e basta.
Come si può conciliare una vita splendente come quella di Caccia Dominioni con le parole che in questi giorni sono state vomitate contro la celebrazione dei caduti di El Alamein fatta dal ministero della Difesa e della capogruppo di FdI in Commissione difesa alla Camera, Paola Chiesa? Sarebbe un “nazifascista” pure l’eroe di guerra (e aggiungiamo noi, della pace) e partigiano Paolo Caccia Dominioni?
La storia è un racconto complesso, incoerente, e solo i cretini la dividono in “buoni” e “cattivi”. In tempi migliori dei nostri, però, l’umanità ha reso omaggio al bel gesto, all’eroismo, al valore a prescindere dalla bandiera alzata da chi l’ha compiuto. I Greci celebrarono Ettore, più valoroso combattente fra i loro nemici Troiani. I Romani scolpirono busti di Annibale, loro nemico mortale. E anche gli antifascisti, quelli veri, quelli che hanno combattuto durante la Resistenza come Paolo Caccia Dominioni, hanno onorato il valore degli sconfitti.
Sono solo i loro cosplayer moderni a voler combattere tutto ciò che c’è di bello del passato, in quell’ansia di distruzione indiscriminata e cieca che si chiama cancel culture.