Nel quadro della campagna d’Italia condotta dal Generalfeldmarschall Albert Kesselring, la guerra partigiana è solo un dettaglio, descritto in un breve capitolo delle sue memorie, dove il Feldmaresciallo rileva che il fenomeno aveva acquisito una qualche rilevanza solo a partire dalla primavera-estate 1944 e che le maggiori insidie giungevano dal Nord-Est della Penisola e dall’lstria per le azioni congiunte di gruppi locali e di bande titine, ormai, almeno dal 1944, diventate un vero e proprio esercito regolare con tanto di leva militare. Per valutare quale sia stato l’apporto della Resistenza ai fini della conclusione del conflitto e se quella di Kesselring sia o meno una smargiassata, bisogna considerare le cifre. La matematica, grazie a Dio, è al di sopra delle parti…
Dall’ottobre ‘43 (battaglia di Salerno) all’atto della resa nel maggio ‘45, su 439.224 soldati i tedeschi persero in Italia 150.660 uomini (compresi i 4325 caduti in Sicilia) in gran parte negli ultimi giorni di guerra (così riporta K.H. Frieser, Die Ostfront 1943/44 – Der Krieg im Osten und an den Nebenfronten, K.H Frieser et all., Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg, VIII, München 2007, p. 1158). Di quei 150.660 caduti germanici, le perdite subite ad opera dei partigiani furono 2.075, ovvero l’ 1,3 % del totale. A titolo di paragone nel solo sacrario tedesco del passo della Futa sono sepolti 30.800caduti. In una campagna come quella d’Italia 2.075 perdite sono quasi nulla: equivalgono ai morti di un paio di giorni di battaglia a Cassino o sulla linea Gialla (nella battaglia per Rimini, dal 26 agosto al 21 settembre ’44 i tedeschi persero 14.604 uomini, di cui 7.000 dispersi), per di più spalmate su un arco temporale che va dal settembre 1943 al maggio 1945.
Per contro, secondo le cifre fornite dall’A.n.p.i., da sempre discusse i partigiani caduti invece ammonterebbero a 28.630: una cifra da ridurre sensibilmente, vista la tendenza ad includere nelle liste di “martiri della libertà” vittime di bombardamenti, di ordigni inesplosi e persino di membri delle FFAA della R.S.I. fucilati per diserzione: con maggiore attendibilità le cifre ufficiali del Ministero della Difesa parlano di 15.197 tra caduti partigiani e civili vittime delle rappresaglie, quindi ben 13.433 di meno rispetto ai dati dell’A.n.p.i. (cfr. Ministero della Difesa, Ufficio dell’Albo d’Oro, Roma 2010, p.4). Si ricordi che il far iscrivere il nome di un familiare deceduto nella lista dei partigiani caduti combattendo significava ottenere la pensione e vantaggi nei concorsi e avanzamenti come titolo preferenziale nella pubblica amministrazione, oltre ad accreditare il mito, alimentato soprattutto dal P.C.I. togliattiano, del popolo alla macchia, da cui il gonfiaggio delle liste dei caduti dei succitati di “martiri della libertà” veri o presunti che fossero.
Accettando comunque a titolo di discussione la cifra fornita dell’A.n.p.i., vorrebbe dire che i tedeschi avrebbero inflitto ai partigiani perdite oltre tredici volte più alte di quelle subite: considerando la cifra massima di circa 130 mila partigiani (di cui però solo 70 mila armati) raggiunta alla fine della guerra (aprile 1945), la percentuale delle perdite partigiane sarebbe stata quindi di ben il 22 % del totale (ma considerando che mediamente il numero assai fluido dei resistenti non superò mai 50-70 mila uomini tra combattenti, renitenti e simpatizzanti nei momenti di massimo sviluppo del movimento partigiano, le percentuali sono da ritenere assai più alte) il che dimostra come le bande non costituissero una minaccia di qualche peso militare se non forse da un punto di vista psicologico in quanto generavano insicurezza dietro le linee obbligando ad incrementare sì la sorveglianza armata, ma sottraendo solitamente pochissime truppe alla prima linea. Le operazioni di controguerriglia infatti erano demandate in massima parte a reparti di polizia militare tedesca e italiana, a reparti quali la 162. Turkestan e delle SS italiane, o a reparti della R.S.I. come le Brigate Nere, la legione Autonoma Ettore Muti, le unità, molto efficienti, di Co.Gu. (Controguerriglia) dell’E.N.R. come il Raggruppamento Cacciatori degli Appennini, i Reparti Arditi Ufficiali (R.A.U.), addirittura i quindicenni delle Fiamme Bianche, e solo di rado a unità di prima linea: in questi ultimi casi si trattò sempre di reparti dell’ordine di una compagnia o massimo di un battaglione, non di più: si pensi al famigerato SS-Panzer-Aufklärungs-Abteilung 16 dello Sturbannführer Walter Reder, o al III Gruppo Esplorante della 4a Divisione F.M. San Marco dell’E.N.R..
Non desta dunque meraviglia se in gran parte dei casi le azioni partigiane ebbero scarsissimo peso dal punto di vista militare – ad esempio difficilmente l’effimera occupazione partigiana di Alba dell’ottobre 1944 poteva avere una benché minima rilevanza nelle operazioni al fronte della Linea Gotica che era quasi duecento chilometri più a sud – ma attirarono sulla popolazione civile il peso delle rappresaglie germaniche. E nemmeno servirono a distrarre dal fronte truppe tedesche: Lutz Klinkhammer ricorda come ben il 95% dei soldati tedeschi non furono coinvolti nella controguerriglia né nelle rappresaglie, molte delle quali avvennero durante la ritirata dal fronte, quando i tedeschi venivano attaccati dopo aver lasciato le posizioni: attacchi senza alcun significato militare ma che finirono spesso per far ricadere le drammatiche conseguenze sulla popolazione civile.