Protagonisti di tanti duelli televisivi, scontri pubblici e polemiche infuocate, i “Diari di Mussolini. 1939” (pag. 994, 21,50 euro) pubblicati da Bompiani con il significativo sommario di “veri o presunti”, andrebbero anzitutto letti. L’impressione, invece, è che si sia di fronte all’ennesimo episodio di critica testuale senza che si senta la necessità di conoscere il testo, ovvero di conoscere ciò di cui si parla. La giustificazione interessata, l’alibi, che molti accampano e che è stata spesso usata per chiudere la bocca a Marcello Dell’Utri – che di questi documenti è l’ultimo “scopritore” – è che si tratta di un falso, ragione più che sufficiente perché proprio della falsificazione si discuta, senza nemmeno entrare nel merito. Se si fa un passo avanti, è per argomentare che, trattandosi appunto di un falso, il suo scopo non può che essere quello di riabilitare la figura del dittatore: di qui l’immancabile denuncia di nostalgie neofasciste e la conseguente indiscutibile condanna dell’intera operazione, che, se non concepita come mera speculazione, deve avere per forza questo inquietante risvolto più biecamente politico che storico.
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di Antonio Marino da del 27 novembre 2010
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Messa in questi termini, la questione non sarebbe meritevole di ulteriore approfondimento e potrebbe essere considerata chiusa. Il fatto è che se ci si prende la briga di leggere il volume, le cose appaiono immediatamente meno semplici e scontate. Il primo punto è che, proprio come dichiara il sommario “veri o presunti”, l’autenticità dei diari non è postulata come un dato di certezza assoluta, ma che nemmeno la loro falsità può essere un dogma indiscutibile. Ben 57 pagine dell’introduzione sono dedicate a un’analisi dettagliatissima e addirittura pedante delle «perizie e pareri (prevalentemente negativi) dal punto di vista storico» che rifanno la storia di queste agende, elencando autorevolissime opinioni – come quella negativa di De Felice, ma anche quella positiva di Mack Smith – ma anche ammettendo che una parola definitiva, un giudizio incontrovertibile ancora non ci sono. Tanto più questo dubbio resta se si passa a considerare l’altra argomentazione, quella di una falsificazione a scopo di riabilitazione di Mussolini. Di questo, infatti, nel testo non c’è traccia, i “diari” – ancora una volta, a patto di leggerli – non solo non tracciano un quadro storico nuovo, ma nemmeno introducono novità degne di nota sulla figura del dittatore, sulle sue scelte, sulle sue antipatie, sui suoi tic. Resterebbe l’ipotesi di una falsificazione a scopo commerciale, cosa che è già stata tentata in passato senza successo con gli stessi diari di Mussolini, ma anche con quelli di Hitler. Naturalmente, fino a che non ci sarà una perizia definitiva (ammesso che sia possibile ed economicamente conveniente affrontarne i costi) il dubbio è legittimo, senonché, l’accuratezza e la verosimiglianza delle annotazioni presuppone una conoscenza della figura e una ricerca sulle attività del dittatore, oltre che un riscontro certosino con i documenti ufficiali dell’epoca, che appaiono un investimento (soprattutto di tempo) decisamente spropositato a fronte di pur pingui ritorni economici.
Quanto al testo, uno dei dati che colpisce è l’altalenante atteggiamento del Duce riguardo ai tedeschi. Sul patto d’acciaio le perplessità sono più d’una, al massimo Mussolini lo considera alla vigilia dell’invasione della Polonia (5 agosto) «uno sbaglio ovvero l’opportunità per non essere anche noi ingoiati dai tedeschi», quanto alla possibilità di schierarsi contro la Germania, a Galeazzo Ciano (16 agosto) che gli comunica che «gli italiani sarebbero fieri di fare guerra alla Germania» Mussolini risponde: «Ma non mi faccia ridere, ma quale guerra? In poche ore la svastica sventolerebbe su tutta Italia e di noi non rimarrebbe neanche il segno della nostra polvere». Dunque, un’alleanza dettata dal timore, cosa che peraltro non esclude, ma in qualche maniera anzi spiega un astio verso il collega dittatore che emerge palese nelle annotazioni dell’8 novembre, dedicate all’attentato che a Monaco risparmiò il Fuhrer, ma provocò la morte di sette persone. In proposito Mussolini scrive: «Farò un dispaccio per lo scampato pericolo, ma in verità se il colpo fosse andato a buon fine si sarebbe finalmente respirato aria di pace e di salvezza».
Il diario del 1939, che non fa cenno (in qualche misura ovviamente) a Claretta Petacci, cita invece a più riprese la moglie Rachele. Una prima volta, sotto la data del 13 marzo, a proposito della proposta (ripetuta e ricorrente, a quanto pare) di Vittorio Emanuele di farlo principe. «Principe di che? Oh! La Rachele principessa!! Con una delle sue battute romagnole riderebbe di gusto!!». E ancora, il 21 novembre, l’uomo passato alla storia per le sue avventure amorose e che addirittura finirà ucciso a Giulino di Mezzegra accanto alla sua amante, tenta di consegnare alla posterità un autoritratto familiare a tinte pastello: «A casa – scrive – trovo quella pace che mi sarebbe stata negata ovunque. Rachele ha saputo dare alla nostra casa quel semplice e sano ambiente patriarcale della nostra Romagna che nella favolosa Roma mi riconduce ogni giorno alla rurale mia terra». Una notazione che pare, come tante altre, chiaramente interessata e che, in vista di una fine che si approssima, fa pensare – come è stato ipotizzato – non a un falso, ma a una riscrittura, da parte dello stesso Mussolini, dei diari del 1939 fra il 1943 e il 1944, nella relativa tranquillità e nel vuoto di potere e di attività imposto dall’occhiuta tutela dei tedeschi a villa Feltrinelli, sul lago di Garda.
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Inserito su www.storiainrete.com il 29 novembre 2010
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