Reduce da un lungo soggiorno su Marte, il professor Gabriele Turi ha voluto dare alle stampe e al mondo un segnale di vita. Trascurando gli effetti del jet-lag, Turi ha scelto un tema ambizioso e vasto e deve aver faticato a condensarlo in circa 160 pagine. Tante ne conta il suo pamphlet «La cultura delle destre» (Bollati Boringhieri, pp. 175, €€ 14,00) in cui Turi, docente di Storia contemporanea all’Università di Firenze, si occupa di un tema per lui importante, per il resto del mondo surreale: «l’egemonia culturale berlusconiana». Curiosamente quanti vanno blaterando di una “egemonia culturale berlusconiana” – e Turi si pone all’avanguardia in questo campo – sono gli stessi che negano, contro ogni evidenza, l’esistenza invece di una egemonia vera e radicata che, volgarmente, è chiamata “di sinistra” e che, in Italia, imperversa in case editrici, giornali, università, scuola, televisioni, industria discografica, teatro e cinema. Gran parte del “politicamente” e “storicamente corretto” che ammorba, sempre più di anno in anno, le coscienze viene da lì anche grazie ad un evidente e scontato sistema di autoriproduzione: di persone e di economie, di stili, di cliché, di pregiudizi… E’ un sistema culturale che produce libri, film e opinione, e così facendo produce anche denaro (anche sotto forma di sovvenzioni pubbliche), “sterco del diavolo” quanto si vuole ma indispensabile per fare cultura e quindi incidere sulla società. Quanto abbia investito in cultura uno dei maggiori imprenditori culturali del Mondo (Berlusconi ha grandi interessi, come è noto, nell’editoria, nel cinema, nella televisione commerciale) non lo so francamente ma l’impressione è che abbia speso poco. Forse nulla. Sicuramente meno di quanto sia necessario per organizzare una “cena elegante”.
Ora, però, il punto per quanto ci riguarda non è cosa abbia fatto culturalmente Berlusconi e il suo movimento (secondo noi praticamente zero) ma, incredibilmente, è cosa Turi e altri credono abbia messo in opera effettivamente. Con uno stravolgimento della realtà che ha dell’incredibile c’è chi ancora oggi è convinto che il “berlusconismo”, con ampiezza di strategia e di mezzi, con una lungimirante politica sviluppata con sapienza e pazienza, avrebbe operato negli ultimi decenni per instaurare una vera e propria “egemonia culturale”, anche in campo storiografico. Infastidito dai dati di fatto, Turi trascura di dare un’occhiata, ad esempio, ai cataloghi Mondadori dove potrebbe trovare molti autori che non gli dispiacerebbero (Franzinelli, Luzzatto i primi che vengono in mente) e non altri che invece potrebbero infastidirlo (es. Pansa che pubblica con Rizzoli). Ma nel corso delle sue 160 paginette, Turi fa di più e meglio. Del resto non bisogna dimenticare – e lui per primo non lo scorda certo – che in passato con la sua rivista “Passato e presente” ha dato vita a convegni che non avrebbero sfigurato in qualche film di Fantozzi, forti di titoli come «La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi». Insomma, si è capito, Turi non ama le mezze misure: è un militante, orgoglioso di esserlo, convinto della sua battaglia e incurante – tra le altre cose – di una tipica deformazione di quelli come lui. E cioè il fatto di vedere militanti, specie di segno e colore opposto, ovunque. Anche dove non ce ne sono.
Ed eccoci al perché «Storia In Rete» si dedica a Turi dopo averlo tranquillamente ignorato per circa nove anni e 94 numeri. «Storia In Rete» si occuperà ancora per qualche capoverso di Turi perché Turi ha deciso di occuparsi, a modo suo, di «Storia In Rete». Ci ha addirittura dedicato un capitolo di 31 pagine, l’ultimo, intitolato «La Storia In Rete e una rete per la storia». Quello che Turi scrive, in altri tempi avrebbe portato inevitabilmente ad un duello: inserire questo giornale in un progetto culturale che non esiste è surreale ma accreditarci l’etichetta berlusconiana (che per lui equivale al Male, per noi equivale al Nulla) è oggettivamente offensivo. Lo è in linea generale e lo è nello specifico visto i modi con cui Turi “argomenta” la sua tesi. Chi deve fare i conti con un’Ideologia può occuparsi del “Reale” solo con una certa disinvoltura: ad esempio citando nella bibliografia di chi scrive solo i testi che riguardano il Fascismo e tralasciare tutti gli altri che spaziano dalla Grande Guerra alla Crisi del Golfo, da Tangentopoli agli enigmi della storia del rock. Oppure, fatto decisamente più grave, gettare uno sguardo distratto tra i numeri di «Storia In Rete» e trascurare, tra gli altri, due numeri che considero fondamentali: il n. 30 (aprile 2008) in cui abbiamo pubblicato un lungo articolo dedicato a «La Casta e la Storia» e il n. 65 (marzo 2011) in cui denunciavamo la “svendita” della Storia nazionale. In la “Casta e la Storia” abbiamo preso le distanza dall’uso cialtrone del Passato, tipico di tutti (ripeto: TUTTI) gli schieramenti politici italiani. A proposito di Forza Italia, tra le altre cose, scrivevamo: «Partita tanto bene nel ’94 con un codazzo di professori e storici e posizioni influenti nei media, se li è persi per strada lasciando inalterata l’egemonia culturale che vuol battere». In realtà il Berlusconismo sul fronte culturale, a parte un po’ di sparate in prima pagina sul Giornale, non ha mai neanche iniziato a combattere come dimostrano anche i pochi programmi “culturali” di Mediaset regolarmente appaltati a note centrali del revisionismo internazionale come la BBC o Discovery Channel. Per il resto rimandiamo il prof. Turi e chiunque sia interessato a quell’articolo (in particolare le pagine 16-20). Non meno qualificante, ai nostri occhi, è l’attacco lanciato da questo giornale, nel marzo 2011, all’allora “non ministro” dei Beni Culturali Sandro Bondi (che secondo Turi sarebbe insieme a Gaetano Quagliarello e a Fabrizio Cicchitto, tra i “teorizzatori” dell’egemonia culturale berlusconiana) responsabile di aver patteggiato in Parlamento i due voti della Südtiroler Volkspartei per non essere sfiduciato. In cambio Bondi ha concesso il “depotenziamento” di alcuni monumenti in Alto Adige, primo tra tutti il Monumento alla Vittoria nella Grande Guerra di Bolzano, da sempre odiato dagli “irredentisti” (a parole) filo-austriaci. Come sia possibile che un uomo come Bondi possa aver avuto un ruolo qualunque in una qualunque strategia di egemonia culturale lo sa solo Turi. Noi sappiamo che «Storia In Rete» non ha a che fare né con certi personaggi né con certe “egemonie”. Se così fosse stato avremmo dormito sonni più tranquilli, avremmo meno debiti e problemi, avremmo più spazio sulla stampa potenzialmente “amica” (che invece ci ignora tranquillamente salvo fare dell’ironia un po’ cretina come ha fatto Luigi Mascheroni proprio recensendo il libro di Turi su “Il Giornale”), potremmo avere più pagine, stampare e vendere più copie, dormire sonni più tranquilli. E invece niente: siamo felici di non aver padroni, di non far parte di cordate e di non dover dire grazie a nessuno tranne che ai nostri lettori. E sfido chiunque a provare il contrario.
In realtà Turi, per dimostrare l’indimostrabile, azzarda un metodo a metà tra l’induttivo e il deduttivo, riuscendo a non convincere su tutto il fronte. Del resto, come non avere dei problemi a spiegare razionalmente come possa esistere un’egemonia culturale che abbia per fondamenti «individualismo, consumismo, edonismo, diffidenza per l’altro e attaccamento ai valori cattolici tradizionali»? Il cattolicesimo – tradizionale o no – può davvero convivere serenamente con l’individualismo, il consumismo, l’edonismo e la diffidenza per l’altro? Ma Turi ha mai sentito una sola frase pronunciata da un qualunque Papa per lo meno all’Angelus domenicale? Se queste sono le premesse logiche allora però nelle ricostruzione di Turi ci può star tutto. E infatti ci sta. Anche perché mettere insieme cose che non hanno grande relazione tra loro è facile. Usando lo stesso metodo di Turi si potrebbe dire che il professore è un accanito sostenitore di Berlusconi e della sua politica visto che cita il Cavaliere più di venti volte, Cicchito e Dell’Utri 6, Bondi 7… Miracoli della dialettica. Che è “l’arma” preferita da Turi per denunciare che la “riscrittura dei manuali di Storia” (al prof. Turi vanno invece tutti bene così? Anche quando per Foibe si parla solo di cave nel terreno carsico e non di stragi fatte da qualcuno ai danni di qualcun altro?) è un tutt’uno con la battaglia per mantenere il Crocifisso nelle scuole così come il Revisionismo storico specie nella sua variante più odiosa (per Turi): «l’insistito ridimensionamento della Resistenza». Insomma, a Turi dubbi, revisioni, aggiornamenti non stanno bene e sono evidentemente una forma virulenta e odiosa di «individualismo, il consumismo, l’edonismo e diffidenza per l’altro…». Il Passato è un Moloch che va lasciato lì così com’è. E quando, ad esempio, uno stimato e scrupoloso storico come Paolo Simoncelli va a mettere le mani – in modo stra-documentato – sul presunto antisemitismo di Giovanni Gentile ecco che tutto quel lavoro viene liquidato da Turi (autore in passato di una biografia del filosofo assassinato a Firenze nel 1944) così: «I risultati non sono apparsi convincenti, in assenza di una esplicita condanna delle leggi del 1938» (p. 45). Punto e a capo. Avanti un altro…
La rozzezza dell’analisi di Turi è evidente anche quando si occupa del nostro giornale che gli è utile per portare avanti il suo personalissimo metodo dimostrativo: «L’interesse della rivista si concentra sull’età contemporanea e sul mondo del terzo classificato nel sondaggio sui “super italiani”: Mussolini…». Falso: «Storia In Rete» si occupa di storia a 360° mettendo in evidenza, quando possibile, aspetti poco noti della storia italiana e occidentale. Infatti, come dichiarato dal primo numero, quello che ci interessa è presentare fatti e uomini del nostro passato in una luce diversa, meno minimalista e auto denigratoria di quanto in genere piace fare anche ai nostri intellettuali. Ma il “nostro passato” non coincide solo col periodo dal 1919 al 1945: il passato italiano vanta almeno 27 secoli, tanti quanti ne ha Roma. E, infatti, basta guardare le copertine della nostra rivista per vedere che su 81 numeri (compreso il presente e i tre speciali) il ‘900 ha occupato il 50% dei temi. Ma «il mondo di Mussolini» è rappresentato ancora meno perché il ‘900 per noi vuol dire anche parlare (e sempre con taglio “revisionista”) dei Romanov e di Stalin, del terrorismo in Italia e dell’11 settembre, della Grande Guerra e dell’infamia degli esperimenti su cavie umane, di Che Guevara, di politica coloniale, di dibattiti storiografici sul web, ecc. ecc. Eppure, nonostante questo, Turi scrive che: «Non è mio proposito analizzare in particolare la rivista (e si è visto.. NdA), quanto evidenziare, attraverso i riferimenti in essa contenuti, la miriade di periodici più o meno semiclandestini che si occupano di storia richiamandosi ai valori della destra». Poi, senza precisare come una “miriade di periodici più o meno semiclandestini” possa fare da base ad una egemonia culturale anche di bassa lega come quella da lui paventata (Individualismo, consumismo, edonismo…) e senza sospettare che voler rivalutare – dati alla mano – una storia nazionale spesso in balia di auto denigratori seriali e professionali non è cosa necessariamente solo di destra ma cosa, ci pare, di semplice buon senso e onestà intellettuale, Turi prosegue imperterrito: «Viene alla luce un network molto ampio di riviste e di istituzioni che si affidano spesso ad Internet (nota di colore: Turi scrive Fascismo con la “f” minuscola però Resistenza e anche Internet con la maiuscola…, NdA): una rete circolare in cui appaiono ripetutamente gli stessi nomi, specchio di una visione della storia che in breve tempo da antagonista è diventata governativa (…) Potremo così seguire il tentativo dello schieramento di destra e di centrodestra di dar vita ad una propria cultura attraverso il discorso storico, che nell’Italia dell’ultimo cinquantennio era stato il principale strumento di formazione di una classe dirigente di sinistra» (p. 140). Ed ecco che “casca l’asino”: in pratica Turi denuncia scandalizzato il presunto tentativo del centrodestra di fare (ma non l’ha fatto come è sotto gli occhi di quasi tutti) quello che, per sua stessa ammissione, è stato fatto dalla classe dirigente di sinistra per 50 anni: darsi uno spessore politico-culturale attraverso una certa visione della storia. Ora dire che quella visione (anche su temi non del ‘900 come evidenziamo proprio in questo numero a proposito delle insorgenze anti francesi di fine ‘700) è oggettivamente giusta e non suscettibile di sostanziali correzioni è un arbitrio evidente. Dire che ogni tentativo di farlo sia “di destra” è un altro arbitrio mentre scrivere che questo sia funzionale ad una politica governativa è invece una fesseria. E, fesseria o no, «Storia In Rete» non è parte in alcun modo di nessun progetto che non sia quello dichiarato nell’editoriale del primo numero. Editoriale che Turi non ha letto e che, evidentemente, non ha neanche intuito. Ora si potrebbero dire molte altre cose ma ormai le posizioni sono chiare: sia quello che scrive Turi, sia quella che è la realtà (e si tratta di due dimensioni sideralmente lontane come si è visto). Per concludere una notiziola che non sappiamo se è vera ma che potrebbe spiegare meglio l’intera operazione: il pamphlet di Turi era stato inizialmente scritto per essere pubblicato dalle edizioni de «Il Manifesto», quotidiano orgogliosamente comunista. Chissà come poi è finito alle più sobrie edizioni “Bollati Boringhieri” pur mantenendo un tono militante che forse è la cosa più stonata e “datata” per una pubblicazione del 2013.
Articolo pubblicato su Storia In Rete n. 95 – settembre 2013