«L’ho fatta grossa!» si allarmò David Powell. Il 18 settembre 1980, a Damascus nell’Arkansas, in tuta bianca e stivali di vinile nero, l’aviere si era calato nel cuore del Titan II, il più grande missile balistico intercontinentale degli Stati Uniti. Alto come un palazzo di nove piani, custodiva una delle più potenti testate termonucleari W-53 e poteva colpire un bersaglio a una distanza di oltre novemila chilometri. Il militare aveva fatto cadere per sbaglio la pesante chiave con cui stava lavorando e aveva forato il serbatoio del carburante. Vi sarà un’esplosione con parecchi feriti: dopo alcune settimane si spegnerà in ospedale un giovane tecnico che aveva tentato di riparare la falla. Ma la bomba, grazie ai meccanismi di sicurezza, rimarrà intatta.
di Mirella Serri da La Stampa del 1 giugno 2015
Il saggista è riuscito solo di recente ad accedere al dossier dedicato a «Incidenti e infortuni con armi nucleari», che riguarda il decennio dal 1957 al 1967, e a cui ha aggiunto anche informazioni (purtroppo) «fresche», che arrivano fino ai nostri giorni. Ma la documentazione è incompleta, avverte l’autore: copre solo una metà del cielo nucleare, quello a stelle e strisce, mentre di quanto è accaduto in Unione Sovietica non si sa assolutamente nulla.
È dunque assai complicata la strada dell’atomica nel dopoguerra, lastricata di infortuni mai svelati che vanno da un missile antiaereo sganciato senza volere da un caccia e finito in strada, alla manopola di un interruttore di un reattore per distrazione rimasta spenta per quattro giorni, a una lampadina che, sfuggita di mano a un operaio, stava per avviare la fusione del nucleo. Ogni volta si rischia di brutto: come nel caso dello schianto di un B-52 in cui tre membri dell’equipaggio muoiono mentre le due bombe all’idrogeno fortunatamente non si attivano. L’U.S. Air force con il naso di Pinocchio informò che non si era corso alcun pericolo di contaminazione ma, come emerge dal rapporto, gli effetti delle radiazioni in caso di esplosione avrebbero raggiunto Washington, Baltimora, Filadelfia e New York.
Sviste? Errori umani? Certo. Ma anche trascuratezza. Nelle basi americane in Italia vennero installati i parafulmini solo dopo che, tra il 1961 e il 1962, furono colpiti dal quarto fulmine i missili Jupiter, equipaggiati con testate nucleari. Anche i falsi allarmi non si contano: nel New Jersey viene dichiarato lo stato d’allerta per un errato avvistamenti di missili sovietici. In precedenza a New York si erano messi in moto, in un’altra occasione, tutti i sistemi di sicurezza all’annuncio di un attacco da parte dei russi. In quel momento, però, proprio Krusciov si trovava nella sede delle Nazioni Unite nella Grande Mela, cosa che rendeva assai improbabile un bombardamento.
«Oggi ci sono ancora migliaia di missili americani e russi con testate nucleari e pronti al lancio», spiega l’autore. «Altre centinaia ne possiedono l’India, la Cina, il Pakistan, Israele, la Corea del Nord, la Gran Bretagna e la Francia». Allora, cosa fare? «La mancanza di una stampa libera ha contribuito alla proliferazione di incidenti industriali e alle devastazioni ambientali avvenute nel blocco sovietico», osserva Schlosser. La storia dell’atomica nell’era della Guerra fredda ha dunque molto da insegnare: la circolazione delle notizie funziona non solo come protezione ma anche come prevenzione.