Tra tutti i film in cui compare la figura di Mussolini e ispirati alle vicende della sua vita ce n’è uno che rappresenta una assoluta anomalia. Si tratta di Claretta, realizzato da Pasquale Squitieri nel 1984 e presentato nel settembre di quell’anno alla Mostra del Cinema di Venezia.
Una elegia per Clara Petacci
Claretta è una sorta di elegia della figura di Claretta Petacci che si dissocia dalla classica resa cinematografica e televisiva. Anche nel precedente in Mussolini ultimo atto, realizzato da Lizzani dieci anni prima la figura di Claretta era trattata con un certo rispetto, ben lontano dai toni della biografia Claretta l’Hitleriana (i cui toni sobri e distaccati emergono fin dal titolo” come ricorda il Direttore). Nel film di Lizzani che canonizzava la vulgata della morte di Mussolini, si limitava a raccontarla come donna innamorata e preda della gelosia nei confronti della figlia di Mussolini, Elena Curti (in realtà all’epoca sedicenne), che scambiava per amante. Nel film di Squitieri si va ben oltre il semplice rispetto e la ricerca di un ideale romantico.
In Claretta di Squitieri la famiglia e persino il fratello Marcello sono trattati come una sorta di vittime incolpevoli degli eventi. Ma a stupire lo spettatore odierno non è soltanto l’operazione cinematografica nei confronti dei Petacci che suona come una beatificazione bensì la qualità della produzione e del cast.

Una produzione di prim’ordine
Protagonista è Claudia Cardinale, una delle massime dive italiane del dopoguerra, nonché compagna dello stesso Pasquale Squitieri dal 1973. E Claudia Cardinale per il ruolo di Claretta interpretazione riceverà il Nastro d’argento nel 1985 (premio non ex aequo, quell’anno fu premiata solo Claudia Cardinale). Altro personaggio chiave del racconto cinematografico è la giornalista decisa a raccontare la storia di Claretta, nonostante i tentativi di boicottaggio, “interpretata” da Catherine Spaak, che nel film incontra anche la vera Maria Petacci, ovvero Miryam Petacci (o Di San Servolo, il suo nome d’arte ai tempi del suo breve periodo di attrice).

Catherine Spaak intervista Miryam Petacci sul Corsera
“Interpretata” tra virgolette perché in quel periodo Catherine Spaak aveva iniziato quel percorso professionale di giornalista, che l’avrebbe poi fatta ricordare anche come conduttrice di talk-show televisivi. Tanto che sul Corriere della Sera, durante la lavorazione del film, comparirà proprio un’intervista di Catherine Spaak a Miryam Petacci, intrecciando quindi il piano di realtà e finzione.

Miryam Petacci che nella finzione cinematografica è interpretata da Nancy Brilli al suo debutto cinematografico, mentre nel ruolo del fratello maggiore Marcello c’è Giuliano Gemma. Due figure, Miryam e Marcello, non amate già ai tempi del regime. Arcinota è la vicenda della morte di Marcello Petacci considerato solo un affarista da buona parte del governo della Repubblica Sociale, tollerato solo per la vicinanza a Mussolini. Arrestato anche lui a Dongo il 27 aprile e destinato alla fucilazione, gli altri gerarchi arrestati chiesero di non essere fucilati con il Petacci. Persino i membri della Resistenza consentirono questa forma di “rispetto” agli esecrati nemici di Salò fucilando Marcello Petacci a parte.

Miryam di San Servolo e Luigi Freddi
Miryam Petacci invece tentò l’avventura cinematografica a Cinecittà, ed ebbe poi una breve carriera nel cinema spagnolo a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, ma pare non fosse tenuta in grande considerazione dal cinema italiano dei primi anni ’40. Almeno a leggere il monumentale memoriale che Luigi Freddi, il dominus di Cinecittà, scriverà nel dopoguerra. Nel memoriale Freddi dedica un capitolo piuttosto critico su Miryam di San Servolo, quasi che lui avesse fatto di tutto per dissuaderla dal sogno di fare l’attrice. Certo è che il memoriale di Freddi è comunque da prendere con le molle, visto l’evidente scopo di proporsi all’Italia repubblicana come un civil servant che si era mosso sempre nell’interessa nazionale anche nella sua adesione a Salò.
Il Claretta di Squitieri nel raccontare l’intera famiglia Petacci come una vittima degli eventi visto oggi appare come qualcosa di assolutamente altro, di impossibile, come se arrivasse da una dimensione parallela, come i “film” al centro dell’adattamento Amazon de L’uomo nell’alto castello.
Un film che mantiene le distanze da Salò?
Questo perché Claretta non è né un film di riconciliazione nazionale, né un caso propriamente detto di quella cinematografia “revisionista” che si vedrà più di vent’anni dopo come il caso de Il sangue dei vinti o Red Land – Rosso Istria. È un film sicuramente anti-badogliano, ma non anti-partigiano e nemmeno filo-saloino.
Determinanti in questo senso le uniche due scene esplicite di repressione da parte dei tedeschi e delle forze di Salò presenti nel film. Dei soldati tedeschi che sparano alle spalle di un giovane in fuga dopo aver divelto un altoparlante da cui si diffondeva la voce di Mussolini mentre annunciava la fondazione della Repubblica Sociale
E quella di una donna impiccata da parte di un reparto caratterizzato tra GNR e Brigrata nera, creando una situazione dove al solito Claretta chiede di fermare la macchina in un gesto di pietà (come aveva fatto per il busto del Duce infranto la notte della fuga del 25 luglio).
Atto di pietà irriso dal milite saloino che esclama ridacchiando, dopo che Claretta è stata presentata dall’autista: “Adesso capisco perché il Duce si è rincoglionito!”.

Elementi che consentiranno a Squitieri di rivendicare il film come “antifascista” precisando: «Io credo che il fascismo ne esca abbastanza male; se qualcuno vi ha visto pericoli di coinvolgimenti emotivi è perché questo è un problema suo.»[1]
Una location dannunziana
Altro elemento accennato alla repressione di Salò e alla guerra civile è il racconto della fucilazione del figlio della governante del Vittoriale per attività partigiana. Sì, il Vittoriale perché in una scelta estetico-onirico di regia, prima di approdare a villa Fiordaliso di Gardone, dove effettivamente risiederà Claretta, c’è un passaggio nella residenza-mausoleo di D’Annunzio. I due luoghi sono effettivamente vicinissimi, con Villa Fiordaliso situata sul lungolago immediatamente a valle del Vittoriale.

Qui l’addetto stampa dell’ambasciata giapponese (metacitazione di Harukichi Shimoi?) prima fa fare un tour della residenza-mausoleo, poi l’incontro con la principessa consorte di Montenevoso, Maria Hardouin vedova di D’Annunzio interpretata da una diva dei telefoni bianchi come María Mercader, e infine il ricongiungimento con Mussolini che attende Claretta nello studio del Vate.
Vittoriale che è anche il pretesto per la scena della governante che chiede a Claretta di intercedere con Mussolini per salvare il figlio, vicino ai partigiani, dalla fucilazione. Richiesta ovviamente negata che pure sarà occasione di un confronto tra Benito e Claretta in merito alla situazione italiana.

Agiografia e beatificazione
Insomma quello che interessa a Pasquale Squitieri, visto anche il suo ricercato ruolo di outsider del cinema italiano, è di realizzare una beatificazione/glorificazione di un personaggio storico, raccontando l’amore di una donna, un amore vittima della Storia. Outsider non soltanto in un’ottica “revisionista”, sempre di Squitieri il film Li chiamarono… briganti! del 1999, col Risorgimento in chiave antisabauda, ma proprio di cineasta controcorrente. Mentre era impegnato con Claretta, tentò un film sul caso Moro ma non essendo “aria” optasse per Il pentito un film su Buscetta e Falcone con i nomi “non troppo cambiati” (il magistrato protagonista interpretato da Franco Nero è Giovanni Falco).
Ma non c’è solo l’amore vittima della Storia, anzi l’amore è dato per scontato e da questo punto di vista è quasi più compiuta la vicenda Claretta-Benito nel film di Lizzani grazie alle scene di gelosia di lei. Squitieri sembra più interessato a raccontare e immaginare le virtù umane di Claretta, amplificate da una certa ingenuità.
Una agiografia, con Claretta che di fronte all’ufficiale tedesco rifiuta da fare da spia. Mentre è arcinoto che il bolzanino Franz Spögler, SS-Untersturmführer, fotografasse tutta la corrispondenza dei due.
E beatificazione, non manca nemmeno un martirio. Non si tratta della fucilazione, bensì la rappresentazione di una violenza subita da Claretta in un rifugio durante un bombardamento ad opera di un uomo deciso a vendicarsi del fascismo.
Pure Squitieri aggiunge qualche elemento che rende evidente il distacco dalla realtà di Claretta, come le sequenze della fuga del 25 luglio. Da un lato prova pena per gli italiani e gli effetti della guerra, ma a difficoltà a comprendere che esistano profughi e sfollati. E allo stesso tempo lamenta il loro tradimento, allineando per un momento la Claretta del film a un’espressione di fascismo duro e puro.
Un film onirico?
Una agiografia tutta calata in una dimensione onirica come ben dimostrano i due flashback in cui vengono raccontati gli incontri con Mussolini. Il primo incontro sulla strada per Ostia con Mussolini che scende da una Alfa Romeo rossa, in una luce soffusa e sfocata, che allo spettatore di oggi appare come una scena con “troppi filtri instagram”. Se possibile ancora più folle (ma a suo modo molto sottile) è quella che vede Claretta appoggiata a una parete della Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia osservare il suo Benni impegnato nel consueto discorso dal Balcone. Estasi da Santa Teresa, e senza chiedere il perdono del Bernini, visto che Claudia Cardinale ha sicuramente le capacità per non strafare sul piano della recitazione. Sequenza che si conclude con una magistrale inquadratura roteante dal grande lampadario della sala.

Scena forse più sottile di quello che sembra a prima vista, forse per Squitieri l’estasi era quella che provava anche il popolo osannante di piazza Venezia. Un elemento e una interpretazione suffragati anche da una delle interviste alla protagonista Claudia Cardinale a ridosso della prima a Venezia:
«Probabilmente, sino agli ultimi mesi, fu soprattutto lei ad amare lui. Lei lo vedeva, anzi lo stravedeva, come l’Eroe, il Maschio virile, l’Uomo forte… Tutti questi elementi, insomma, per cui Mussolini era il palese oggetto di desiderio dell’altra metà del cielo italiana, probabilmente le ragioni profonde del consenso che s’era saputo conquistare.»[2]
Vittoriale al cinema: Claretta vs Il cattivo poeta
E onirico anche il Vittoriale e le sue penombre. E forse la luce del Vittoriale è catturata meglio in questo film, dove Squitieri insiste con piani sequenze e inquadrature dove molto rimane fuori fuoco che ne Il cattivo poeta di Jodice. Ma d’altronde Jodice deve raccontare di un Vittoriale ancora abitato dal Vate, mentre per Squitieri il Vittoriale è già un mausoleo. Anzi, diventa in un certo senso il Mausoleo dell’amore di Claretta e Benito, visto che il primo incontro dopo Roma e il Gran Sasso avviene qui. Certo è che Squitieri con le sue scelte di regia e fotografia racconta impeccabilmente la luce del Vittoriale.
Il reale a Squitieri interessa relativamente nel racconto storico. Onirica anche la sequenza come il presagio della fucilazione dei due che avviene, con un totale anacronismo, ai piedi delle statue del Palazzo della civiltà Italiana. Presagio che è introdotto come una visione mentre Claretta osserva l’orizzonte dalla Regia Nave Puglia al Vittoriale

Il “Castel Petacci” di Merano
Tutto fuori dagli schemi, onirico, quasi folle, come la scena dei Petacci in fuga, con Claretta che fa fermare l’auto per ribellarsi dell’abbattimento di una statua di Mussolini urlando agli insorti vigliacchi e traditori. Quasi che nell’economia della costruzione del personaggio Claretta per Squitieri il busto del duce e una partigiana impiccata possano essere considerati equivalenti.
E come anticipato anche il fratello Petacci di Giuliano Gemma in questa costruzione, se non propriamente onorato, è trattato in maniera non troppo severa. Vengono descritte le sue ottime entrature in ambito tedesco, e quando viene redarguito dal padre in merito all’acquisto di castello a Merano dove spera di rifugiarsi, interviene Claretta a placare gli animi. Per il padre l’acquisto rappresenterebbe la conferma che i Petacci si sarebbero arricchiti con le loro entrature, mentre per Claretta si tratta delle consuete esagerazioni del fratello, quasi che lui non fosse un profittatore, ma solo un ingenuo che esagera le sue fortune. In realtà il “Castel Petacci” di Merano sarebbe la villa in località Maia Alta del suocero di Marcello, il padre di Zita Ritossa, denominata villa Schidlhof.

Il finale
Come detto il film è caratterizzato a due linee narrative. La giornalista e le sue ricerche all’archivio di Stato aprono il film e l’incontro con Miriam alla tomba di famiglia fa iniziare il flashback che racconta la storia di Claretta a partire dal 25 luglio a casa Petacci e l’incertezza sulla fine di Mussolini.
Nel preludio al finale torna la giornalista Roberta Curti di Catherine Spaak e il suo incontro con un documentarista. Questi le fa visionare un filmato integrale e inedito di piazzale Loreto e lo offre alla giornalista per il suo film. Offerta rifiutata da Catherine Spaak che vuole raccontare la sua idea di Claretta.
Si torna quindi al piano “storico” e la chiusura scelta da Squitieri è la partenza della famiglia Petacci in aereo per la Spagna, con Claretta che resta a terra. Sequenza che Squitieri realizza con una certa ispirazione al Museo aeronautico di Vigna di Valle, che all’epoca esponeva l’idrovolante CANT Z.506 Airone in esterna. Il film si chiude con Claretta in piedi sul molo dell’idroscalo.

In realtà la fuga dei Petacci non avviene con un’idrovolante da un idroscalo del Garda, ma dall’aeroporto di Ghedi a sud-ovest di Desenzano del Garda il 22 aprile 1945. Qui un Savoia-Marchetti S.M.81 con insegne croate e destinazione Barcellona era stato predisposto da Ruggero Bonomi, sottosegretario all’aeronautica e Luigi Gatti, segretario personale di Mussolini. Gatti troverà poi la morte a Dongo, mentre Bonomi si arrenderà con Graziani.
Claretta, un film da recuperare o da dimenticare?
Il film della considerevole durata di 144 minuti appare oggi un oggetto assolutamente alieno allo spettatore contemporaneo. Pure l’interpretazione di Claudia Cardinale in una sceneggiatura e una regia che cercano l’effetto e l’iperbole, sfiorando il cringe in più di un’occasione, resta assolutamente valida, quasi nobilitando lo stesso film.
Film che nonostante il taglio onirico che regala anche sequenze riuscite (quelle al Vittoriale e il finale) resta comunque ancorato all’elemento storico. Quindi l’operazione Claretta di Squitieri resta ben lontana da eventuali parallelismi con il musical Evita di Lloyd Webber, che aveva debuttato nel West End nel 1978 e che tenta un’operazione di rilettura universale della vicenda umana di Evita Perón. Il film di Squitieri è per un pubblico che già conosce la vicenda di Claretta Petacci.
L’elemento più interessante del film è rappresentato dalla sua stessa esistenza, come curiosità storica, e dalle polemiche, relativamente compassate, intorno alla sua uscita veneziana. Il film fu infatti presentato in concorso e vide diversi membri della giuria prendere una posizione molto netta contro il film, pure il dibattito rimase relativamente compassato rispetto ai canoni d’oggi.
Un’ultima curiosità il fatto che Claretta, con Io e il duce di Alberto Negrin dell’anno successivo, e Il giovane Mussolini del 1992, rappresenta il tentativo di coinvolgere firme della ricerca e della divulgazione storica italiana in grandi produzioni. Claretta vede Arrigo Petacco come co-sceneggiatore, mentre Io e il duce e Il giovane Mussolini, avranno alla consulenza storica rispettivamente Giordano Bruno Guerri e Renzo De Felice.
Testimonianza di un’altra epoca, dove anche quando l’adattamento cine-televisivo si prendeva molte libertà come Claretta, la figura dello storico nei titoli di testa era vista come una necessità.
[1] Claretta senza pace, Corriere della Sera, 8 settembre 1984, p. 1
[2] Giuseppina Manin, La Cardinale: “Io, Claretta, il duce l’ho amato così”, Corriere della Sera, 4 settembre 1984, p. 19