Il 22 agosto 1922 l’eroe dell’indipendenza irlandese venne tradito e ucciso non lontano dalla natale Cork. Oggi anche gli inglesi ne riconoscono la statura di leader democratico
di Riccardo Michelucci da Avvenire del 21 agosto 2022
L’imboscata avvenne nella tarda serata del 22 agosto 1922, nel cuore più profondo della contea di Cork, Irlanda meridionale. Il convoglio sul quale stava viaggiando il generale Michael Collins, comandante in capo dell’esercito irlandese, trovò la strada bloccata e fu costretto a fermarsi, diventando un facile bersaglio per i cecchini appostati sulle alture. Il silenzio che circondava la ripida gola di Béal na Bláth fu rotto all’improvviso da una pioggia di spari. Collins fu colpito più volte e morì quella notte stessa, assassinato – proprio come Gandhi – dal fuoco dei suoi connazionali, da uomini che fino a poco tempo prima l’avevano osannato come un leader e un eroe nazionale. In quegli anni l’Irlanda stava lottando per liberarsi dal giogo inglese e alcune settimane prima di quel giorno l’intera isola era precipitata in una guerra civile che aveva messo gli uni contro gli altri i sostenitori e gli oppositori del trattato anglo-irlandese imposto da Londra alla fine del 1921. Collins aveva guidato la delegazione irlandese che per mesi era stata impegnata a Londra in estenuanti negoziati con il governo inglese. Nel dicembre 1921 aveva sottoscritto un accordo che concedeva una prima forma di autonomia a ventisei delle trentadue contee dell’Irlanda ma gettava le basi della divisione artificiale dell’isola imponendo una serie di pesanti limitazioni alla sovranità nazionale del Paese, tra cui l’obbligo di prestare il giuramento di fedeltà alla Corona. Vincoli ritenuti inaccettabili da buona parte degli indipendentisti irlandesi, il cui fronte si era spaccato facendo precipitare il Paese nella guerra civile.
Forte del suo enorme carisma, Collins aveva deciso di sottoscrivere il trattato pur riconoscendo che rappresentava soltanto un compromesso e non sanciva ancora la nascita della repubblica irlandese. Ma era altrettanto consapevole degli enormi rischi che correva e alle persone a lui più vicine confessò che insieme al trattato aveva firmato anche la sua personale condanna a morte. Sarebbe stato ucciso di lì a poco, alcuni mesi prima di compiere 32 anni. La sua morte prematura avrebbe contribuito a forgiarne il mito di padre della patria. Nato nel 1890 in una famiglia di piccoli proprietari terrieri cattolici, Collins era il più giovane di otto fratelli. Rimasto orfano di padre ad appena sei anni, iniziò a lavorare giovanissimo in un ufficio postale di Londra avvicinandosi alle istanze indipendentiste. Nel 1914 aderì al gruppo separatista della Fratellanza Repubblicana irlandese e due anni dopo prese parte all’insurrezione di Pasqua a Dublino. Dopo la sconfitta dei ribelli finì in un campo di internamento inglese ma quando tornò in libertà divenne in breve tempo un leader: iniziò a raccogliere fondi per la causa e costruì una fitta rete di informatori infiltrando i suoi uomini ovunque, anche all’interno del castello di Dublino, la roccaforte del potere inglese in Irlanda. Poi studiò a fondo le tattiche di guerriglia utilizzate contro gli inglesi dai boeri adattandole alla realtà urbana irlandese. Il suo talento militare innato gli consentì di tenere testa a uno dei più potenti eserciti del mondo adottando una strategia asimmetrica basata sulla sorpresa e il logoramento. Ma a conferirgli una dimensione quasi leggendaria fu la “doppia vita” che condusse in quegli anni: mentre in qualità di ministro delle finanze gestiva i conti bancari segreti che servivano a finanziare la lotta irlandese, al tempo stesso organizzò e guidò con straordinaria efficacia le attività di guerriglia dell’esercito repubblicano.
Gli irlandesi lo soprannominarono “Big Fellow” (il gigante) per il suo fisico imponente ma anche per la sua ineguagliata statura di leader militare. Era uno degli uomini più ricercati d’Europa, ma gli inglesi non conoscevano il suo vero volto e lui si divertiva a farsi beffe dei pericoli circolando tranquillamente in bicicletta per le strade di Dublino, quasi sempre in abiti eleganti. Riuscirono a vederlo in faccia per la prima volta soltanto quando si recò a Londra per i negoziati di pace. Durante la guerra civile che spaccò il fronte irlandese la sua temerarietà rasentò l’incoscienza. Il 22 agosto 1922 decise di andare a far visita alle truppe nel sud del Paese, in quella che era al momento una delle zone più “calde” dell’isola. Molti cercarono di convincerlo a non intraprendere quel viaggio, ma lui replicò che non gli avrebbero sparato proprio nella sua contea, vicino al luogo dov’era nato.
A tendergli la fatale imboscata fu un suo ex compagno, un uomo che pochi anni prima aveva sopportato le torture nelle carceri inglesi pur di non tradirlo. Alla notizia della morte di Collins, migliaia di uomini dell’Ira rinchiusi nel carcere di Dublino si inginocchiarono nelle celle e recitarono il rosario «per la salvezza dell’anima di Michael». Alcuni giorni dopo si svolsero a Dublino i funerali solenni, alla presenza di oltre mezzo milione di persone e una processione interminabile seguì la sua bara, ricoperta dal tricolore irlandese verde, bianco e arancione. Negli ultimi mesi Collins aveva cercato invano di convincere gli oppositori del Trattato – in primo luogo il suo ex compagno di lotta Eamon De Valera – della necessità di un compromesso. Pubblicò una serie di articoli sul periodico New York American che rappresentano il suo testamento politico, nei quali sostenne che il trattato del 1921 era un punto di partenza verso la conquista della libertà. I successivi sviluppi gli avrebbero dato ragione, almeno in parte: quindici anni dopo la sua morte gran parte dell’Irlanda fu in grado di completare il percorso verso la repubblica adottando una nuova carta costituzionale e recidendo ogni legame col Commonwealth.
Ciononostante l’eredità politica di Michael Collins continua a dividere. C’è chi lo ritiene colpevole di aver svenduto l’ideale della repubblica irlandese proclamata durante la rivolta di Pasqua del 1916. Altri invece, in particolare gli storici revisionisti, l’hanno considerato il principale responsabile della spirale di violenza che è stata all’origine della fase più recente del conflitto. Molti lo hanno criticato per aver firmato il trattato che sancì la divisione del paese. Ma la sua statura politica sarebbe stata riconosciuta in seguito anche dai suoi oppositori. E la storiografia, sia irlandese che britannica, è oggi unanime nel riconoscergli i più strenui sforzi per assicurare un futuro democratico al suo Paese.