L’italiano patriota anarchico? Amiamo il nostro Paese, ma odiamo il suo essere nazione? L’italiano è orgoglioso di essere italiano, ma detesta «gli italiani»? «Storia in Rete» ne parla con Ernesto Galli della Loggia. E così scopriamo che l’identità italiana è uno schizofrenico miscelarsi di sentimenti contrapposti e quasi mai conciliabili, e che in parte morì in seguito ai traumi morali e militari della Seconda guerra mondiale. Che i nostri storici parlano poco le lingue straniere e che nell’insegnamento scolastico occorre tornare ai buoni vecchi metodi di una volta…
Di Emanuele Mastrangelo
Ernesto Galli della Loggia è una figura singolare nel panorama storiografico italiano. Scrive molto, ma soprattutto sui giornali. Polemizza molto, ma più che con i colleghi con i politici. Si schiera molto, non con i partiti ma sui fronti culturali. Fa parte dell’Accademia ma non lesina critiche ad Università e scuola. E’ un esempio raro di intellettuale impegnato ma restio ad accodarsi. E per rendersene conto basta seguire la sua rubrica quotidiana sul «Corriere della Sera» dove, sotto un titolo apparentemente innocuo come “Calendario”, mena ogni 24 ore fendenti a destra e a manca. Ma attenzione a non confonderlo con un bastian contrario che attacca a testa bassa in qualunque direzione. Galli della Loggia ha idee ben chiare. E forse anche per questo può apparire a volte un isolato come quando riuscì a convincere un’importante editore come Il Mulino a varare un collana economica tutta dedicata all’Identità italiana dove si sono susseguiti un po’ tutti i pilastri dell’essere italiani: dalla pasta all’altare della Patria, i santi e le Alpi, la mamma e le feste patronali, la pizza e Cavour, Coppi-Bartali e Carosello, Mussolini e l’Autostrada del Sole, il Piave e Pinocchio… Il tutto fatto da un intellettuale che a suo tempo decretò, in data 8 settembre ’43, «la morte della Patria». Tutto questo per chiarire di cosa si parlerà in questa intervista realizzata nei giorni della manifestazione «E’ Storia» organizzata a Gorizia…
Professor Galli della Loggia, siamo a Gorizia, una città di confine dove è molto forte l’identità italiana, ma anche quella della minoranza allogena slovena. Che rapporto c’è fra la storia e la nostra identità, soprattutto per il fatto che il sentimento di italianità è abbastanza “ballerino”, ed ha alti e bassi, con fortissimo campanilismo ed altrettanto forti momenti in cui l’italiano non si sente tale?
«L’italiano non si sente italiano? No, è il contrario. L’identità italiana è fortissima, mentre, al contrario il discorso è differente se si parla di identità nazionale. Credo che fra le due esista una enorme differenza: l’identità nazionale è qualcosa che fa riferimento alla statualità, ed è questo elemento ad essere debole in Italia. Però, forse, in una zona di confine come Gorizia, dove c’è il confronto immediato con una identità altra dalla nostra, allora anche l’identità nazionale riacquista forza, e qui non c’è dubbio che l’abbia fatto. Sul confine orientale l’identità nazionale si è espressa con vigore senza dubbio, ma anche con metodi discutibili, violenti, retorici. Nazionalisti, in una parola. D’altronde il nazionalismo è sempre un pericolo in agguato in questi ambiti, ma questo non vuol dire che si debba gettar via assieme all’acqua sporca il bambino, assieme al nazionalismo anche l’identità. O peggio che se ne possa fare a meno. In realtà l’identità nazionale, anche in quest’epoca in cui si parla molto superamento degli stati nazionali, di globalizzazione ed unità europea resta un dato di fatto ineliminabile ed imprescindibile».
A proposito di identità nazionale, quest’anno cade il duecentesimo anniversario di Giuseppe Garibaldi. L’Eroe è un personaggio fondamentale nella nostra identità di italiani, ma anche estremamente controverso, specialmente tra i neoborbonici o i cattolici tradizionalisti, che vedono nella sua opera militare di unificazione una perversa conquista coloniale per conto del Piemonte…
«Hanno certamente i loro buoni argomenti, visto che Garibaldi è stata la persona decisiva nel determinare la fine del Regno delle Due Sicilie. Ma è anche vero che sia il regno borbonico, sia quello pontificio, ma anche tutti gli altri stati italiani preunitari, sono finiti non tanto per l’azione avversaria di Garibaldi o di un Cavour, quanto per il fatto d’essere svuotati dall’interno. Non avevano più una vera forza propria. Forse il Regno delle Due Sicilie aveva un certo consenso di massa interno e lo dimostrò nell’ultima grande battaglia combattuta sul Volturno contro l’esercito garibaldino, ma non possedeva più forza politica autonoma. Era oramai un paese delegittimato dal contesto internazionale europeo, tant’è che non riscosse le simpatie né l’appoggio di nessuna grande potenza quando fu invaso: era per così dire, un paese già fuori dall’alveo della Storia in qualche modo, e questa è stata la causa della sua crisi e della crisi di tutti gli altri stati preunitari italiani. A questo punto è inutile prendersela con il povero Garibaldi, che fu, sostanzialmente il braccio armato della Storia»..
Se la Patria nasceva con Garibaldi, lei poi ha affermato, suscitando notevole clamore, che la Patria sarebbe morta l’8 settembre 1943. Ecco, lei ribadirebbe oggi quel famoso “la morte della Patria”?
«Assolutamente sì. Ma specificando meglio alcuni punti che sono stati equivocati, a volte anche con una certa malizia. Ma d’altronde il rischio di non essere capiti o fraintesi è da mettersi in conto ogni volta che si esprime un giudizio. Però nella sostanza ribadirei quelle tesi dalla prima all’ultima parola».
E se dunque la Patria è morta, lei vede possibilità di resurrezione?
«Com’è noto quella frase fu presa dal titolo di un libro, ma va considerata ovviamente come una espressione metaforica. Nel cuore degli italiani in realtà la Patria è rimasta sempre viva. Quello che è vero è che è morta soprattutto una certa idea di stato nazionale ed anche la realtà materiale di quello stato: un’Italia che contava in Europa, che era bene o male sul punto di diventare una grande potenza e che voleva diventarlo. Le sue classi dirigenti aspiravano a questo, e forse anche il popolo. E’ questa idea di patria e di nazione ad essere morta: perché le sconfitte militari, terribili come quelle che ha subito l’Italia durante la Seconda guerra mondiale, contano, pesano e cambiano il corso della storia. L’Italia ha cambiato il corso della sua storia in seguito alla sconfitta. Quell’idea di stato nazionale e di patria è morto, ed anche quel legame speciale che la maggior parte degli italiani aveva con lo Stato attraverso il tramite della fedeltà alla monarchia. Poi con la democrazia è venuta una politicizzazione dello Stato e quindi della fedeltà verso la nazione. E’ un dato incontrovertibile, e chi non vuol vederlo, beh, probabilmente non si intende molto di storia».
Che giudizio dà della divulgazione storica oggi? Soprattutto dei vari mass media che gestiscono la divulgazione storica, dall’editoria alla televisione, dalla radio ad internet.
«Oramai la vera agenzia di divulgazione storica è la televisione. Che però ha un grave limite, ovvero ricorrere solo alle cose che sono state filmate. Anche se vedo che ci sono alcune trasmissioni – faccio un titolo su tanti, uno che apprezzo molto: “Stargate” con Valerio Massimo Manfredi – che sfruttando molto le ricostruzioni al computer, riesce ad occuparsi molto, e bene, della Storia Antica. Invece noto una scarsa predisposizione a trattare la Storia Moderna, dal Medioevo alla Rivoluzione Francese ed anche l’Ottocento. In fondo si tratta dei secoli più vicini a noi, quelli che hanno influenzato più di tutti la nostra epoca contemporanea. Non saprei dire perché: forse si tratta di momenti storici che si prestano poco ad essere mitologizzati, e che hanno uno scarso contenuto di spettacolarità, oltre al limite di cui accennavo prima: l’assenza di filmati. Per quanto riguarda gli altri media, devo dire di non esserne un buon frequentatore: mi dicono che sulla radio fanno buoni programmi, mentre, per ciò che riguarda internet, confesso la mia totale estraneità a quel mondo».
E di èStoria, la manifestazione di cui siamo ospiti, che giudizio dà? Si aspettava una così massiccia affluenza di pubblico e tutto questo interesse verso la Storia da parte de “l’uomo comune della strada”?
«E’ assolutamente una bella sorpresa. Un’iniziativa positiva, di cui mi compiaccio moltissimo con gli organizzatori, con la città di Gorizia, e con la Regione del Friuli-Venezia Giulia. E’ stata davvero un’ottima idea e molto ben realizzata, con ricchezza di mezzi e di contenuti. Devo fare i miei migliori complimenti alla Libreria Editrice Goriziana per come ha concepito ed organizzato l’iniziativa».
Storici italiani, storici stranieri ed editoria. Come vengono considerati i nostri studiosi all’estero, tanto dal punto di vista accademico quanto da quello delle traduzioni e delle pubblicazioni? C’è all’estero interesse verso i nostri storici quanto gli italiani ne hanno verso quelli stranieri?
«No, e per un semplicissimo motivo: l’italiano non è una lingua conosciuta all’estero come inglese, francese o tedesco sono conosciuti da noi e nel resto del mondo. L’italiano è una lingua che non consente un facile accesso al – per così dire – mercato internazionale delle idee, e noi paghiamo questo scotto. In più per tradizione gli storici italiani si occupano per lo più di storia italiana, cosa che però fanno anche gli storici stranieri, per cui si può dire che essi subiscono sugli altri mercati la concorrenza di studiosi che non hanno bisogno di complicate traduzioni, e questo conferisce un ulteriore vantaggio ai non italiani. Non è una differenza qualitativa, si badi bene, storici validissimi ne abbiamo anche noi, eccome: sono problemi oggettivi di fruibilità, non di qualità degli studi».
Recentemente la comunità dei ricercatori e degli storici italiani è stata attraversata da un fortissimo fermento di coscienza per il caso di “Pasque di Sangue”, il saggio di Ariel Toaff che, dopo molte polemiche, è stato ritirato dal mercato. Lei, se fosse stato l’autore o l’editore, l’avrebbe fatto pubblicare nonostante tutto? E lo ha letto?
«Sì, assolutamente sì. L’avrei fatto pubblicare. E ho iniziato a leggerlo, ma non l’ho finito, perché solo da poco sono riuscito a procurarmene una copia».
In Gran Bretagna in questo periodo sta montando una fortissima polemica sui programmi scolastici di storia. I docenti, motu proprio, spesso epurano i programmi da temi controversi che possano provocare “turbamenti” fra gli studenti o che possano cagionare litigi fra docenti e le famiglie degli scolari. E così in molte classi del Regno Unito non si parla più di Crociate, di Shoah, di Israele, soprattutto se nelle classi sono presenti ragazzi israeliti o mussulmani. Lei che ne pensa?
«Sono assolutamente contrario, è una notizia molto grave, questa. Esiste ancora il “sette in condotta” e l’espulsione dalla scuola per tenere la disciplina! I professori devono sentirsi liberi di trattare i temi che ritengono giusti senza subire pressioni da parte degli studenti, e gli studenti hanno il dovere di ascoltarli. Altrimenti, appunto, sette in condotta, espulsione o nei casi più gravi, addirittura, l’intervento della polizia».