Oltre 350 lettere, private e politiche, ridisegnano biografia e personalità dell’autore del “Principe” Dal rapporto con i Medici al Sacco di Roma, uno squarcio di storia fiorentina e italiana tra il 1497 e il 1527
di Marcello Simonetta da TuttoLibri-La Stampa del 27 agosto 2022
Beffardo e inclassificabile. Comico e tragico. Scherzoso e profondo. Quondam Segretario ed eterno enigma. Più umano e meno umanista. Ecco il Machiavelli privato (sebbene sia difficile scinderlo dal pubblico). Grazie all’Edizione Nazionale delle Lettere di Niccolò Machiavelli, opera collettiva di sette curatori coordinati da Francesco Bausi (Salerno editore, tre volumi, € 210,00), ora possiamo sapere tutto quello che non avremmo osato chiedere su di lui, la grande sfinge della scienza politica. Machiavelli è un paradosso: il suo nome è associato proverbialmente al cinismo calcolatore e all’opportunismo spregiudicato, machiavellico. Per contrasto, secondo molti studiosi machiavelliani che pretendono di essere super partes, sarebbe stato un uomo tutto d’un pezzo, un santino repubblicano, costretto a collaborare con i tiranni per poter sopravvivere. Dunque il suo rapporto con i Medici, dopo i quindici anni di intensa attività come secondo cancelliere della Repubblica fiorentina, fu pura dissimulazione? A leggere con attenzione le 354 lettere del corpus ora edito con commenti ampi e millimetrici (82 di Machiavelli, 272 a lui), vengono dei dubbi. Per esempio ci si ostina a non identificare con Alfonsina Orsini, la vedova di Piero de’ Medici, la «gentildonna» alla quale egli scrisse d’ufficio nel settembre 1512, pochi giorni dopo il rientro dei «padroni» a Firenze. Eppure la Orsini, l’allora «Madonna» per eccellenza che in quel momento si trovava di stanza a Roma, era ansiosa di conoscere i dettagli del cambio di regime in atto. Quel gesto non eroico di ambigua adulazione non gli bastò per mantenere il posto di lavoro, ma le acrobazie per non intaccare l’idolo «vergin di servo encomio », per dirla con Manzoni, non mancarono mai. E il sospetto che avesse partecipato ad una congiura anti-medicea a causa della quale fu torturato e condannato, appare senza fondamento. Liberato dal carcere per un’amnistia dopo l’elezione del primo papa fiorentino, Leone X, Machiavelli intavolò una mirabolante corrispondenza con Francesco Vettori, il suo amico geniale. Considerato da alcuni come una semplice «spalla», Vettori aveva un’intelligenza «prensile come una mano ben fatta e bene adoperata a toccar cose, a muovere e formar oggetti», secondo il fine giudizio di Giorgio Manganelli, che godeva del «piacere secco e ironico del pensiero pulito, senza fumi».
Dal loro dialogo epistolare, un’inimitabile miscela di gravitas e leggerezza, nacque il Principe, inizialmente pensato per Giuliano de’ Medici, fratello del papa, poi dedicato al non tanto magnifico nipote Lorenzo junior. L’edizione permette di apprezzare ogni sfumatura dei loro sapidi scambi. Alcune novità per i curiosi riguardano proprio il fratello di Francesco, Paolo Vettori, meno loquace ma più attivo nella promozione dell’amico Niccolò. Dal 1516 Paolo divenne ammiraglio della flotta pontificia e assoldò Machiavelli, coinvolgendolo nelle operazioni militari navali nel Mediterraneo contro un corsaro turco (come anticipato in diversi saggi a firma di Andrea Guidi e di chi scrive). E sicura la presenza a Roma e a Napoli dell’agente «marinaro », che non stava a grattarsi i famosi «pidocchi» a Sant’Andrea in Percussina, ma indulgeva nell’autorappresentazione di un ozioso Cincinnato esiliato in campagna. Solo nel 1519 Machiavelli iniziò a rientrare nelle grazie dei Medici tramite il mecenatismo di Lorenzo Strozzi, al quale dedicò la sua prima opera a stampa, L’arte della guerra. Il fratello Filippo Strozzi intuì subito che il talentoso disoccupato era «persona per surgere». Gli furono affidate le prime missioni informali, come quella presso i frati francescani di Carpi, che gli diede occasione di scrivere alcune lettere esilaranti a Francesco Guicciardini, gelido uomo dell’apparato che solo con lui lasciava intravedere segni di umanità dietro la sua austera facciata. Machiavelli faceva l’umile consigliere per faccende famigliari, come la dote delle figlie, o lo stato delle tenute di campagna. Vent’anni fa mi capitò di ritrovare l’autografo scritto il 3 agosto 1525. La replica di Guicciardini del 7, per ringraziarlo della pessima recensione sulla villa diFinocchieto, è spuntata fuori quando le bozze dei tre tomi erano già composte. Il testo integrale dell’autografo si può leggere nel mio libro Francesco Guicciardini fra autobiografia e storia (Ronzani 2022), frutto di ricerche parallele all’edizione. Sono innumerevoli le migliorie testuali, le scoperte interpretative di questa impresa che ha richiesto la collaborazione di filologi, paleografi e storici di cui il lettore può rendersi conto al solo sfogliare le 2164 pagine. Un piccolo ma significativo perfezionamento riguarda tutte le parti cifrate delle lettere, spesso edite sulla base di parziali decrittazioni ottocentesche o semplicemente lasciate in bianco dai precedenti editori. E il caso, per esempio, di due lettere di Vettori dell’agosto 1526 nelle quali ho risolto l’enigma «ottico» del codice.
Ma è nel rileggere con cura un’altra missiva del Vettori che ho fatto una scoperta emozionante: emerge infatti che Barbara Salutati, la cantatrice amante di Machiavelli, aveva accesso al cifrario segreto condiviso con il papa e i suoi più stretti consiglieri. Un’imprudenza poco machiavellica che avrebbe potuto costargli cara. Machiavelli si ritrovò in campo negli ultimi mesi della sua vita, quando la discesa dei lanzichenecchi minacciava la penisola. Al fianco del luogotenente pontificio Guicciardini cercò di contenere quell’orda bestiale. Il 16 aprile 1527 scrisse: «Io amo messer Francesco Guicciardini, io amo la patria mia», frase che si è spesso rivendicata con gli occhi risorgimentali, umidi per le sorti dell’Italia. Machiavelli in realtà gioiva della decisione unilaterale del suo compatriota di andare in soccorso di Firenze. Quella decisione presa senza l’avallo di Clemente VII salvò la «patria», ma condannò indirettamente Roma al Sacco. Di conseguenza, i Medici furono scacciati di nuovo da Firenze. Alcuni biografi si domandano perché Machiavelli non sia stato subito chiamato al governo dai neo-repubblicani, non rendendosi conto che lui si era compromesso irrimediabilmente con i poteri forti. Morì poche settimane più tardi, di problemi intestinali, forse causati da una pozione di cui fornì orgogliosamente la ricetta ai suoi corrispondenti.
Fra le più belle lettere vanno ricordate quelle del giocoso collega Biagio Buonaccorsi, del dispettoso cognato Francesco del Nero, dell’invidioso concorrente Filippo de’ Nerli. Burle, complimenti e calunnie si alternano senza posa in queste missive, ricche di sorprese, di oscenità, di saggezza e di stupidità umana, troppo umana. C’è anche una toccante letterina della moglie del «Machia», Marietta Corsini, che scrive all’impegnatissimo Segretario per annunciargli la nascita del figlio Bernardo, «bianco come la neve, ma gl’ha el capo che pare ‘1 velluto nero, ed è peloso come voi». Quante ne dovette sopportare la povera Marietta. Fra gli esercizi di stile più spericolati troviamo la descrizione pornografica (e forse allegorica) dell’incontro con un’orrenda prostituta veronese fatta a Luigi Guicciardini, notoriamente un moralista col quale si dovrebbe identificare l’Asino dell’omonimo poemetto. Frutto di una vasta indagine di squadra, queste Lettere si candidano a divenire opera imprescindibile per gli studiosi di Machiavelli e per i lettori che desiderano conoscere il personaggio storico senza le lenti deformanti dei filtri ideologici.