Di Antonio Socci dal blog “Lo Straniero” del 9 luglio 2021
La liberazione dell’Italia dal dominio straniero e la sua unificazione – com’è noto – è avvenuta nell’Ottocento, dopo secoli di decadenza politica, in enorme ritardo su quasi tutti gli altri paesi, per via militare, con l’intromissione di altre potenze e con guasti storici colossali, soprattutto al Meridione d’Italia.
Ma pochi sanno che il sogno di un’Italia libera avrebbe potuto realizzarsi già nel Cinquecento. In quegli anni l’Italia era la capitale culturale del mondo, nelle corti europee si imparava l’italiano come oggi si studia l’inglese. Le città italiane erano le più ricche e fiorenti d’Europa.
La Firenze rinascimentale e la Roma papale illuminavano la civiltà europea e perciò mondiale. Dunque un’Italia libera e potenzialmente unita, in quel momento storico, sarebbe stata una potenza di primissimo piano.
Non è fantapolitica. Attorno al 1525 si tentò la realizzazione di questo sogno ad opera di due personalità che non si immaginerebbe mai di accostare: il papa Clemente VII e (nientemeno) Niccolò Machiavelli. Sogno spezzato dalla potenza europea incarnata dall’Imperatore Carlo V.
È una vicenda sorprendente perché Clemente VII, oltre ad essere un papa, era pure della casata dei Medici avversata da Machiavelli. E siamo abituati a pensare, secondo il pensiero dominante, che l’esistenza dello Stato pontificio sia stata, nei secoli, la causa della mancata unità d’Italia. Crediamo pure che Machiavelli sia all’origine di questa idea.
Eppure nei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” e nel “Principe”, a leggere bene, egli prospetta per lo Stato pontificio anche un’ipotesi positiva in relazione alla liberazione dell’Italia. Ed è quella che si tentò di realizzare.
Ecco, in breve, la storia. Il 1512 segnò la fine della repubblica fiorentina di cui, a fianco del Gonfaloniere Pier Soderini, Niccolò era stato lo stratega. Con il ritorno dei Medici a Firenze, lui viene espulso dalla vita pubblica.
D’altra parte il suo capolavoro, “Il Principe”, scritto fra 1513 e 1514, parla proprio alla famiglia Medici e al Papa: dalla dedica iniziale a Lorenzo (e prima a Giuliano) all’esortazione finale (“a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”) rivolta al più potente della casata Medici, Giovanni, appena eletto papa Leone X.
La passione civile del Machiavelli è volta alla liberazione dell’Italia dagli stranieri (“Dio le mandi qualcuno che la redima”), perché l’Italia è “tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli”. E dove si può trovare questo condottiero, questo “nuovo Mosè”, se non “nella casa vostra” (i Medici) che è “con la sua fortuna e virtù favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale è ora principe”. Quindi per Machiavelli proprio il Papa – unendo già lo stato pontificio a Firenze – può “farsi capo di questa redenzione”.
Quello che nel “Principe” era un accorato appello ebbe poi un seguito effettivo e proprio Niccolò, chiamato a Roma, mise a disposizione degli antichi nemici la sua esperienza e abilità politica.
Lo ha ricostruito, attraverso un’accurata rivisitazione della documentazione ufficiale, Gaetano Lettieri, docente di storia del cristianesimo all’Università la Sapienza di Roma.
Dopo un’iniziale diffidenza infatti Machiavelli cominciò ad avere la fiducia dei Medici. Il suo sogno cominciò a diventare realtà con l’elezione al pontificato, nel 1523, di Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici col nome di Clemente VII. Era stato arcivescovo (e governatore) di Firenze e collaboratore dell’altro papa Medici, Leone X, e di Adriano VI.
Lettieri ha ricostruito questa vicenda sorprendete con il saggio “Nove tesi sull’ultimo Machiavelli” (uscito su “Humanitas”) e con altri saggi che confluiranno in un volume di prossima uscita.
“Clemente VII, lettore attento delle opere machiavelliane” scrive Lettieri“decide di divenire il redentore d’italia: si fa promotore della lega di Cognac ed entra in guerra contro l’imperatore, in un’identificazione singolare e ambigua tra supremo capo teologico (che, contro Lutero, è intento a riaffermare il suo primato assoluto sulla cristianità) e messianico capo politico italiano”.
All’alleanza anti-imperiale per la liberazione d’Italia partecipano pure Venezia e il duca di Milano (con l’appoggio della Francia). Lettieri ricostruisce i sorprendenti anni romani di Machiavelli e quella grande impresa che purtroppo si concluse tragicamente con il sacco di Roma, compiuto dai Lanzichenecchi, nel 1527.
Così Carlo V schiaccia la penisola, determina “la perdita definitiva della libertà d’Italia” (Lettieri) e mette fine al Rinascimento italiano simboleggiato da Roma e da Firenze, entrambe detestate da Lutero.
La catastrofe del 1527 segna pure, nota Lettieri, “il progressivo indebolirsi dell’egemonia italiana sulla civiltà e la cultura europee, che Clemente VII e la sua curia avevano inteso difendere e riaffermare”.
Perché le notizie su quegli straordinari anni del Machiavelli presso la Curia romana, si chiede Lettieri, sono state “sottovalutate o del tutto trascurate”dalla storiografia?
La sua risposta è significativa: “Ritengo che soltanto l’identificazione di un pregiudizio ideologico, di un vero e proprio inconsapevole meccanismo di censura possa spiegare questa pressoché sistematica rimozione”.
In pratica non si poteva conciliare l’immagine dell’“eroe Machiavelli, corrosivo e libero pensatore politico… eroe di ideali secolari e popolari di libertà” con la “Roma cattolica in guerra con la Riforma, per di più al servizio di un papa screditato quale l’ondivago Clemente VII, erede dei Medici ‘tiranni’”.