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L'Insolita Storia

Cancel culture a San Francisco: il nome di Lincoln resta per evitare una causa

Il direttivo del distretto scolastico di San Francisco il 5 aprile scorso ha votato all’unanimità per annullare la decisione presa a gennaio in merito al prosieguo della ridenominazione delle scuole. Di questo programma di ridenominazione ci siamo occupati in più occasioni:

I nomi di Lincoln e degli altri grandi che rischiavano di essere “cancellati” restano al quindi loro posto. Sì, ma ‘annullamento della decisione del distretto scolastico non va comunque inteso come un passo indietro del Comitato, o una riflessione sui limiti di un modus operandi che aveva attirato le critiche di riviste insospettabili come The New Yorker o The Atlantic.

La mossa del San Francisco Unified School District Board of Education è una ritirata strategica che nulla cambia della filosofia impiegata, e si è materializzata solo per una duplice contigenza: l’opportunità politica e le grosse grane legali in vista.

L’opportunità politica è quella del contesto epidemico. Le scuole del distretto di San Francisco alla data della decisione non erano state ancora riaperte per l’emergenza sanitaria, né ne era stata pianificata ufficialmente la riapertura. Il fatto che il dipartimento non avesse ancora pianificato un preventivo, e che secondo il principale quotidiano cittadino, San Francisco Chronicle, preventivasse un milione di dollari per segnaletica, uniformi, pavimenti delle palestre ecc, non era certo un bel biglietto da visita.

Ma l’opportunità politica è comunque un aspetto secondario della tempesta che rischiava di scatenarsi: sul direttivo del provveditorato di San Francisco era piombata per una causa legale. Una querela orchestrata in grande stile. Già i primi di febbraio, a pochi giorni dalla decisione di procedere con la ridenominazione, un gruppo di genitori, tramite un affermato studio legale di San Francisco specializzato in cause governative, aveva inviato una lettera a 30 giorni per indurre il provveditorato a ritrattare la sua decisione.

La motivazione? Essenzialmente un cavillo legale sulla trasparenza della decisione, e soprattutto, della sua comunicazione, la violazione del Brown Act. A febbraio la presidente del direttivo, Gabriela López, aveva cercato di prendere tempo. In una lettera pubblicata sul San Francisco Chronicle aveva posto l’attenzione sulle riaperture, ammesso che c’erano stati degli errori (la López parla proprio di mistakes) e dichiarato che la decisione era sospesa, on hold.

Nonostante l’apprezzamento della comunità nel focalizzarsi sulle riaperture, l’on hold della López era una decisione informale che non sanava gli aspetti legali intorno alla decisione di gennaio. E lo studio D.Scott è andato avanti con la causa, con i querelanti che hanno assunto un altro pezzo da novanta per portare la causa contro il distretto scolastico ad un altro livello: Laurence Tribe, un costituzionalista di Harvard che ha rappresentato casi alla Corte Suprema più di trenta volte.

Laurence Tribe, tra i massimi costituzionalisti statunitensi era stato assunto per la causa contro il distretto scolastico di San Francisco (via Commons)

Insomma la causa legale intentata da gruppi di genitori ed ex alunni delle scuole di San Francisco rischiava di diventare una di quelle classiche “cause simbolo” per gli Stati Uniti.

Inevitabile che dopo il primo pronunciamento positivo della corte di San Francisco a favore dei querelanti, la commissione non potesse che fare un passo indietro, annullando l’unanimità la decisione di gennaio. Accusando i querelanti di aver avviato la causa solo per “ostacolare un’azione legittima e debitamente notificata” e di aver fatto un passo indietro solo per evitare “lo spreco di fondi pubblici in una causa frivola“.

Tra l’altro per il distretto scolastico di San Francisco dal punto di vista legale non è un periodo “felice”, visto che negli stessi giorni è scoppiata la grana di Alison M. Collins, decaduta da vicepresidente del direttivo il 25 marzo 2021 per dei vecchi tweet razzisti del 2016. Il 31 marzo la Collins ha fatto causa agli ex colleghi del direttivo per 72 milioni di dollari. Il motivo che aveva portato alle dimissioni forzate della Collins? Tweet contro la comunità asiatica. Collins, afro-americana, aveva agito per modificare i criteri di ammissione alla Lowell High School, tra le migliori scuole pubbliche della sua categoria negli Stati Uniti. Criteri che fino all’arrivo della Collins erano strettamente meritocratici e blind-tested, e andavano involontariamente a favorire la comunità di scolari di origine asiatica (una situazione analoga a quella che si sta verificando in Virginia alla Thomas Jefferson High School for Science and Technology, la migliore scuola pubblica degli USA, con le famiglie pronte a fare causa contro la contea per la modifica ai test di ammissione). La Collins nel 2016, di fronte alle famiglie asiatiche che criticavano il suo operato rispose che queste utilizzavano il pensiero suprematista bianco per essere assimilate e “andare avanti.

Insomma il classico cortocircuito radical chic e il classico paradosso della cancel culture. Anche perché la Collins si è difesa dicendo che i suoi tweet rientravamo perfettamente nella freedom of speech e che non erano razzisti. Insomma la Collins si difende come una “trumpiana” qualsiasi quando la cancel culture agisce contro di lei…

Insomma il distretto scolastico di San Francisco è un perfetto case study per quello che dagli Stati Uniti si sta propagando in tutta Europa. Anche perché gli aspetti legali non sono ancora del tutto chiariti: lo studio D.Scott pretende comunque 6.000 $ di spese legali (da dare in beneficenza), anche perché il distretto scolastico, con il suo passo indietro: “non si è ancora assunto la vera responsabilità dei propri passi falsi, una scelta sconveniente per un ente governativo, un cattivo esempio per gli scolari della nostra città ed infine uno spreco di risorse dei contribuenti“.

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