Un pugno di uomini – non molti ma neanche pochissimi – chiusi in qualche ufficio ben protetto, con statistiche, grafici, relazioni tecniche e carte geografiche. Probabilmente, a completare la scena, possiamo immaginare pure posaceneri pieni di mozziconi di sigarette, ancor più probabilmente tazze di caffè, thé, bottiglie di liquori. La morte di milioni di persone – non meno di due sembra – durante la Seconda guerra mondiale è arrivata così: con uomini pieni di medaglie, per lo più in divisa, destinati a lunghe carriere e sicuri di non correre nessun rischio, intenti a risolvere un solo vero, grande problema. Come uccidere il maggior numero di nemici? Un problema risolto brillantemente, come si dimostra ampiamente nelle prossime pagine. Ma chi era per quegli uomini “il nemico”? La definizione prevalente fu quella più ampia: non solo soldati o dirigenti politici di nazioni avversarie ma civili inermi, possibilmente aggrediti di notte, nelle loro case, con tecniche pensate per non lasciar loro nessuno scampo. Quella che raccontiamo in questo Speciale è una storia di guerra che più asimmetrica non si potrebbe: una forza armata che sceglie deliberatamente di uccidere persone indifese, colte nella loro quotidianità. E’ quello che, in questi tempi, fanno i terroristi; è quello che durante la Seconda guerra mondiale hanno fatto soprattutto i comandi delle forze aeree inglesi e americane, ovviamente col placet dei rispettivi governi. Senza dimenticare gli enormi interessi economici che una simile scelta strategica comporta e quindi le ricadute in termini di commesse enormi sulle industrie di armamenti e di aerei. Non a caso, Dwight D. Eisenhower, uno che certi meccanismi li conosceva bene visto che è stato il comandante delle forze alleate in Occidente nella seconda parte della guerra mondiale, nel 1961, alla fine del suo secondo e ultimo mandato da presidente degli Stati Uniti, si decise a denunciare i pericoli del “complesso militare-industriale” che storicamente condizionava, in pace e in guerra, la politica Usa.
La guerra asimmetrica pianificata e portata avanti fino agli ultimi giorni di guerra era quella di seminare caos e disperazione non tanto sulla linea di combattimento, tra i soldati nemici, ma nelle popolazioni, in quello che viene in genere definito “il fronte interno” e che tra il 1939 e il 1945 divenne un fronte a tutti gli effetti, il più lungo e frastagliato di tutti. Ovviamente anche altre nazioni in guerra operarono bombardamenti su obbiettivi civili: i tedeschi su tutti, ma anche giapponesi, sovietici e, in misura molto contenuta, anche gli italiani. Ma è indiscutibile che per impiego di mezzi e uomini, per l’affinamento delle strategie di attacco, per la lucida ferocia e, in sintesi, anche per la quantità di distruzioni prodotte e delle vittime causate, furono soprattutto britannici e americani a puntare sulla carta del bombardamento terroristico: spezzando, ad ogni costo e senza alcuno scrupolo, la resistenza morale dei popoli nemici si mirava ad un collasso politico, ancor prima che militare, del nemico. In realtà la cosa non funzionò esattamente così: tedeschi e giapponesi resistettero sino all’ultimo e cedettero soprattutto per il collasso delle proprie forze armate. In fondo, quando gli americani colpirono Hiroshima e Nagasaki con le bombe atomiche il Giappone era già virtualmente sconfitto da mesi e già si erano avanzate proposte di pace. Per quanto riguarda invece la caduta del Fascismo in Italia nel luglio 1943, quell’evento ebbe cause in gran parte non collegabili ai bombardamenti. E’ indubbio che il raid su Roma del 19 luglio 1943 può aver contribuito ad una accelerazione degli eventi ma erano stati soprattutto i rovesci militari, culminati con l’invasione della Sicilia, a mettere in crisi il regime mussoliniano. Eppure, nonostante la prova provata che – a parte la bomba atomica – i bombardamenti non garantiscono di per sé una vittoria gli americani ne hanno fatto una costante delle loro imprese belliche anche dopo la Seconda guerra mondiale: in Corea, in Vietnam, in Iraq… Una forma di accanimento selvaggio – mai sanzionato da nessun tribunale perché certe cose toccano solo ai vinti – che suggerisce come a lungo le elites anglo-sassoni abbiano nutrito un senso di superiorità rispetto ai popoli attaccati. E si sa che se l’avversario è “un essere inferiore” tutto diventa più facile. Anche il massacro indiscriminato…
Se c’è un malvezzo dilagante al giorno d’oggi è quello dell’abuso dei paragoni storici. Paragoni quasi sempre campati in aria e usati a scopi polemici. Insomma, un’insalata russa di luoghi comuni e azzardi logici da cui chi ama e studia la Storia dovrebbe tenersi lontano. Così come da evitare sono le classifiche, in questo caso le “classifiche dell’orrore”: Quale è stato l’Orrore più grande Novecento? Chi ha ucciso di più? Quale strumento di morte è più micidiale o più esecrabile? Domande orribili che lasciano il tempo che trovano. Ogni orrore ha una sua storia e ha le sue vittime cui si porta rispetto anche evitando ogni paragone. Ecco perché abbiamo voluto fare la storia dell’orrore della “morte che arriva da cielo”, contestualizzandolo nel suo formarsi e sviluppo, ma senza metterlo in relazione con altri eventi, militari e no, anche perché come si è detto i “bombardamenti strategici” (definizione asettica e ipocrita) possono essere messi solo in minima parte in relazione con gli altri avvenimenti bellici o politici di quegli anni. L’ “area bombing” era un fenomeno quasi indipendente, che si auto alimentava e si auto giustificava, ben lontano dai fronti di guerra.
Forse è anche in questa caratteristica il perché del fatto che la memoria di quei massacri è stata, fin dal primo dopoguerra, filtrata ed edulcorata in modo incredibile. Ancora negli anni Novanta, a cinquant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ad esempio in Germania l’argomento era sostanzialmente un tabù. Se ne è accorto un grande scrittore tedesco, Winfried G. Sebald, quando provò a bucare la cortina del silenzio con una serie di conferenze. Il “senso di colpa” tedesca, più di ogni altra cosa, aveva fatto da tappo al ricordo così come era stato, sempre per i tedeschi, per gli eccidi e gli stupri di massa condotti dai sovietici nelle regione dell’Est. Qualcosa di simile è accaduto in Italia sia per le stragi del dopoguerra sia per il dramma dell’Esodo e delle Foibe. A proposito della sorpresa provata nel vedere le reazioni del pubblico quando parlava di quello che era accaduto, Sebald scrive che «… l’esperienza di un’umiliazione nazionale senza precedenti, vissuta da milioni di persone negli ultimi anni della guerra, non aveva mai trovato modo di esprimersi a parole, mentre chi ne era stato colpito in prima persona evitava di tornarvi sopra e di trasmetterne il ricordo alle generazioni future» (cfr. W.G. Sebald “Storia naturale della distruzione”, Adelphi 2004)
Il pensiero di Sebald è importante anche perché affronta anche un altro aspetto del problema, un aspetto nel quale anche noi, come italiani, possiamo riconoscerci. E’ il tema del “tradimento” delle classi intellettuali, di chi aveva il compito principale di organizzare (con libri, romanzi, film, opere teatrali, quadri o musiche) la memoria: «Quando volgiamo gli occhi al passato, in particolare agli anni compresi tra il 1930 e il 1950, il nostro è sempre al tempo stesso un gettare e un distogliere lo sguardo. Per questo le opere prodotte nel dopoguerra dagli scrittori tedeschi nascono spesso da una coscienza falsa o dimidiata (…) per la stragrande maggioranza dei letterati rimasti in Germania durante il Terzo Reich, dopo il 1945 fu molto più urgente ridefinire la propria immagine anziché raffigurare il mondo reale che stava loro attorno».
In Italia, una simile distorsione (distorsione non innocente, ipocrita) della memoria ha portato ad una capillare ricostruzione e al ricordo tenace di ogni malefatta condotta dai tedeschi o dai fascisti durante la Guerra civile per stendere invece un telo su tutto quello che era accaduto ad opera di chi si era auto investito del compito di “liberarci”. Una ipocrisia globale cui si sono ben presto accodati anche governanti e intellettuali italiani pronti a sostenere, implicitamente, il teorema secondo il quale se si ricorda un orrore non se ne può ricordare anche un altro anche se con caratteristiche e responsabili diversi. Un fenomeno che ci ha riguardato come Nazione ma che è molto diffuso: infatti è in Europa che, complessivamente, si è venuta ad imporre una cultura arrogante nella sua debolezza, giustificazionista delle ragioni degli altri, rinunciataria per quanto riguarda le istanze della propria gente, pronta ad immaginare scenari globali e ad alimentare sensi di colpa negli altri ma al tempo stesso decisa ad impedire una matura, non emotiva, analisi del passato che restituisca alla Storia la sua inevitabile complessità. C’è chi è arrivato a definire “Angeli” gli uomini dei bombardieri che colpivano le nostre città e c’è chi li ha classificati tra i “liberatori” perché, a ben vedere, tutte le colpe erano solo del Fascismo anche quando le bombe le buttavano con intenti non militari ma criminali gli alleati; anche quando, a guerra finita, si consumarono eccidi su eccidi in tutto il Nord Italia; anche quando i partigiani titini e i loro alleati nostrani gettavano a centinaia le persone nelle Foibe… Un colpevole perfetto, a tutto tondo, consente di non fare altre riflessioni, di non porsi altre domande e, in fondo, fare quello che notava Sebald: «Quando volgiamo gli occhi al passato il nostro è sempre al tempo stesso un gettare e un distogliere lo sguardo».
Questo speciale nasce per proporre, ad ogni lettore, di fare esattamente il contrario anche a costo di un viaggio nel dolore e nell’orrore, due elementi di cui le pagine che seguono abbondano. Fissare la propria attenzione su fatti e circostanze precise, per farsi un’opinione e individuare dinamiche, uomini e circostanze. Insomma, conoscere per iniziare a comprendere ed elaborare una interpretazione personale e autonoma. Una regola che vale per ogni evento storico e che qui proviamo ad applicare al tema dei bombardamenti, un tema che è nel nostro dna fin dal primo numero di “Storia In Rete” dove compariva, non a caso, una rubrica che non abbiamo mai smesso di curare: “C’è una bomba in città”. A differenza di altri orrori, i bombardamenti a tappeto hanno lasciato tracce concrete, esplosive, che quotidianamente emergono un po’ ovunque ancora oggi: bombe grandi e piccole, inesplose, causano pericoli e disagi per migliaia di persone e ci ricordano i contorni di una tragedia che non può essere dimenticata perché è ancora, a modo suo, attuale.